Aida alla Fenice

Aida è il dramma della solitudine. La terzultima opera di Verdi principia e termina in pianissimo, quasi evocazione d’anime obbligate a rivivere il loro amore impossibile. Alterna ambiziose mire politiche a personali introspezioni psicologiche, svelando, dietro alla triangolazione, vite costrette in un ordine sociale infrangibile. Chiunque si opponga al potere per affermare la propria personalità soccombe davanti al volere di Iside e Ptah.

Con felice intuizione, il Teatro La Fenice di Venezia ripropone l’allestimento del 1978 che vedeva impegnati Mario Bolognini alla regia, Mario Ceroli alle scene e Aldo Buti ai costumi. E’ Bepi Morassi, occupatosi fin da allora delle riprese di questo spettacolo, a curare la regia di un’Aida in cui l’Egitto c’è, ma più come suggestione. Bolognini soppesò attentamente la sfera politica e privata, privilegiando l’intimità del desiderio amoroso e lo scontro tra le principesse, alla ricerca della “parola scenica” fondamentale nella riflessione su Verdi.

Ceroli, estendendo le disposizioni del compositore per il quarto atto anche agli altri, creò una scenografia impostata su due livelli, gli inferi cupi del popolo e l’empireo luminoso della corte, ben sottolineati dalle luci di Fabio Barettin. Questa orizzontalità, che richiama anche la grafica dei papiri antichi, si armonizza elegantemente con il trono, le piramidi, le sfingi, un corteo di sculture seriali piatte, ricreando un Egitto stilizzato e quasi astratto. Un modo di fare teatro passato, ma ancora affascinante. Uniche pecche i numerosi cambi scena a sipario calato che allentano la tensione drammatica e una certa limitatezza spaziale nei momenti corali.

I costumi di Aldo Buti sono gli originali del 1978, prestati dall’Archivio storico Cerratelli di Pisa. Chiari i rimandi alla scultura egiziana nelle vesti dei sacerdoti e delle dignitarie, mentre Aida e Amneris indossano abiti delle stesse fogge, ma di colori diversi secondo un preciso uso drammaturgico delle sfumature. La corte di Ramfis è caratterizzata da tinte rosse e ocra, quella di Amonasro da cromie brune, azzurre e marroni. Schiavi e guardie invece sono nude, ricoperte solo di harness e perizomi.

Le coreografie di Giovanni Di Cicco per il Nuovo Balletto di Toscana alternano passi acrobatici per i moretti e movenze più contemporanee per gli schiavi e le ancelle.

Riccardo Frizza, alla guida dell’Orchestra veneziana, adotta tempi serrati, il giusto mordente nei ballabili, un’eleganza fuoriclasse nell’evocare l’esotismo immaginario di Verdi. Evidente è l’intento di far risaltare la natura politica della vicenda, che ha un suo specifico linguaggio nella partitura in contrasto con quello più lirico del triangolo amoroso.

Nel ruolo eponimo Monica Zanettin che non brilla per chiarezza espressiva. La voce è fin troppo pastosa, limitata in acuto, afflitta da un fastidioso vibrato. Il Radamès di Diego Cavazzin, tenore dall’acuto generoso, ha un approccio desueto al canto, generico negli accenti e nei colori con cali di peso nel registro centrale e basso. Silvia Beltrami è Amneris scenicamente ben risolta, ma dalla voce non sempre omogenea, a tratti stanca. Perentorio e tuonante l’Amonasro di Luca Grassi. Simon Lim è Ramfis corretto, quanto la grande sacerdotessa di Rosanna Lo Greco e il messaggero di Antonello Ceron. Problematico il re di Mattia Denti, dall’intonazione dubbia.

In splendida forma il coro preparato da Marino Moretti.

Sonori applausi per tutto il secondo cast alla recita del 31 maggio.

Luca Benvenuti

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