Forte dei recenti successi internazionali che l’hanno visto trionfare a Berlino, Cannes e infine agli Oscar, Hamaguchi Ryūsuke si cimenta quest’anno al Lido nell’impresa di conquistare l’ambito Leone con Aku wa sonzai shinai – titolo internazionale Evil Does Not Exist –, opera che segna una parziale rottura con la filmografia precedente nel suo essere inaspettatamente rarefatto e votato alla potenza dell’immagine anziché della parola, ma non per questo meno degno di attenzione. Progetto dalla genesi insolita, e ancora più insolito nel suo delegare allo spettatore una responsabilità maggiore che in passato nel decifrare il proprio tessuto simbolico, pulsa tuttavia della grammatica inconfondibile di Hamaguchi, che dimostra di saper riuscire a sorprendere anche operando al di fuori dei riferimenti testuali a lui più familiari.

Nel villaggio montano di Harasawa, a circa tre ore da Tokyo, il tuttofare TakumiŌmika Hitoshi, già direttore di produzione di Wheel of Fortune and Fantasy (2021) – conduce un’esistenza pacifica scandita dalle necessità della comunità: una su tutte, il rifornimento di acqua sorgiva che, con la sua purezza, costituisce il vero tesoro della zona. Un futuro incerto sembra però incombere su Harasawa nel momento in cui una compagnia della capitale ottiene i permessi per costruire un campeggio di lusso, la cui fossa settica andrebbe a scaricare direttamente nella falda acquifera. Nella speranza di guadagnarsi il favore degli abitanti, due rappresentanti inviati dalla sede centrale cercano di ingraziarsi Takumi e di impararne lo stile di vita per dimostrare la loro buona volontà, ma la scomparsa della di lui figlioletta HanaNishikawa Ryō – ne stravolgerà i piani…

Aku wa sonzai shinai

Rinnovando il sodalizio stretto in occasione di Drive My Car (2021), le cui sonorità jazz sono state un fattore determinante nell’impatto suscitato dalla pellicola, Hamaguchi ha accettato l’invito della compositrice Ishibashi Eiko – qui alla sua terza prova per il cinema, al quale si è affacciata nel 2016 firmando la colonna sonora di The Albino’s Tree di Masakazu Kaneko – a dirigere un cortometraggio che fungesse da accompagnamento video alla sua live performance Gift, presentata al mondo lo scorso luglio. Esperienza del tutto nuova per il regista, i lavori sono cominciati poco dopo la fine delle riprese di Drive My Car, a partire da uno scambio di idee che Ishibashi ha definito «quasi epistolare», culminato poi in lunghi sopralluoghi dell’area circostante la dimora della compositrice polistrumentista, scelta in ultima istanza come location definitiva per il film.

A contatto con la natura, in un ambiente estraneo ai palcoscenici urbani su cui solitamente si angustiano i suoi personaggi, Hamaguchi è questa volta partito dalla forza cogente del paesaggio per partorire la propria idea per il film, cui primo tassello è stata la volontà di raccontare un problema di ordine ecologico, dal quale poi sviluppare l’intera vicenda. Nell’arco di poco più di un anno, tramite un continuo processo di addizione – di elementi narrativi, personaggi, scorci – ha così visto la luce Gift, fondamentalmente identico al lungometraggio presentato qui a Venezia se non per poche decine di minuti di girato e per il montaggio, vero fattore discriminante che, a detta di Hamaguchi, ne ha trasformato profondamente il senso.

Senso che, come si diceva in apertura, si disvela in misura preponderante attraverso le immagini, a partire dalla sontuosa, flemmatica sequenza iniziale in soggettiva – una overture concertistica in pieno stile – puntata sul cielo mattutino. Una sorta di antitesi ideale del consueto establishing shot di apertura, a segnalare il rifiuto di fornire facili punti di riferimento e che riconferma la tendenza di Hamaguchi a frammentare il punto di vista, facendolo talvolta coincidere con quello dei personaggi – come l’incipit di cui sopra, che si scopre essere una soggettiva di Hana, in passeggiata nella foresta con il naso all’insù – salvo poi frustrare repentinamente le aspettative, riportando la mdp su angoli morti – come quelli sul retro dell’auto di Takumi – che non sono riconducibili ad alcun osservatore interno.

Lungi dall’essere un espediente fine a se stesso, sono proprio tali accorgimenti a fornire una prima chiave d’interpretazione della macabra chiusa del film, che vede Takumi strangolare – probabilmente a morte – il rappresentante di Tokyo non appena ritrovata la figlia, seduta in uno sperduto campo a osservare un cervo – ferito da un colpo d’arma da fuoco, come ci consente di cogliere un dettaglio della durata di una manciata di frame. L’efferato gesto del montanaro si potrebbe quindi leggere come la spontanea, inevitabile reazione di un animale che si sente minacciato e si trova costretto a proteggere il suo piccolo – Hana, certo, ma la comunità tutta nel senso più ampio della metafora –, esattamente come fanno i cervi, animali timidi e schivi ma che, quando feriti, possono anche attaccare l’uomo: questo era, non a caso, il contenuto della conversazione tra Takumi e i suoi poco graditi ospiti, poche ore prima che gli abitanti del villaggio si mettessero alla ricerca di Hana.

Utilizzando il motivo del cervo e della sua doppia natura – possibile una influenza di Corpo e anima (2017) di Ildikó Enyedi? – quale presenza intermittente, Hamaguchi riporta così lo spettatore al significato del titolo, dacché in natura «il Male non esiste».

Esattamente come Takumi si premura di disinfettare e fasciare la ferita della rappresentante, non perché sia la cosa giusta da fare ma perché è l’unica reazione possibile nel mondo animale – di cui l’essere umano è parte integrante a sua volta –, così egli si premurerà di uccidere il suo collega poco dopo, in quanto così richiede la situazione di vulnerabilità in cui la piccola cittadina di campagna si trova, minacciata dal capitalismo muscolare proveniente dalla capitale. Anche l’omicidio, quindi, che sembrerebbe spezzare il ciclo circadiano che così idillicamente si perpetuava a Harasawa, si scopre invece perfettamente inserito nello stesso, sollevando Takumi e il resto del villaggio da ogni valutazione morale – come peraltro segnalato dalla macchina da presa, che si tiene distante dal delitto, abbandonando la posizione “di terzo incomodo” mantenuta invece nelle sequenze in auto, dove cercava di carpire anche i più impercettibili movimenti facciali.

Forse leggermente ostico per gli amanti dell’Hamaguchi più verboso di Happy Hour (2015) e Wheel of Fortune and Fantasy o di quello metaletterario di Drive My Car, Aku wa sonzai shinai mostra in filigrana una scrittura altrettanto raffinata anche se meno strutturata, parimenti in grado di fornire un affresco della società giapponese in pochi scambi: basti pensare alla conversazione intrattenuta dai due rappresentanti sulla via di Harasawa, dove lui depreca la corsa ai sussidi pubblici post-Covid, la frenesia cementizia delle grandi aziende, la mancanza di qualsivoglia attaccamento a, o vocazione per, il proprio lavoro, mentre lei lamenta l’ormai incolmabile divario comunicativo tra generazioni e tra sessi, l’utopia della stabilità economica e del matrimonio, l’invecchiamento della società e con essa dei costumi.

Poco più di cinque minuti di girato che, nei toni tanto faceti quanto disillusi caratteristici dell’autore, squadernano un trentennio e più di questioni sociali, dibattute dai nipponisti più civicamente attivi – uno su tutti Alex Kerr, che alla follia degli interventi di tochi kairyō (lett. “miglioramento del suolo”) e della corporate culture dei grandi conglomerati (keiretsu) ha dedicato la sua carriera – come anche nei circoli politici del paese-arcipelago.

Ascetico nella sua reticenza, Aku wa sonzai shinai ci riporta all’estro sperimentatore e al gusto per l’improvvisazione mostrate da Hamaguchi nel seminale Intimacies (2012), conducendo il pubblico a uno sconcertante completamento dell’assioma iniziale: se il Male non esiste, ne consegue che anche per il Bene debba valere la medesima considerazione. Restano soltanto la natura e se stessi – a patto che si riesca a sopravvivere alla prima…