“American Anarchist” di Charlie Siskel

quando il tuo libro più famoso è anche quello che odi di più

Presentato fuori concorso alla 73. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, American Anarchist è un film-inchiesta firmato dal produttore televisivo Charlie Siskel, alla sua seconda regia dopo il documentario Alla Ricerca di Vivian Maier (2013), candidato al premio Oscar nel 2015.

Il film si presenta come una lunga intervista a William Powell, autore nel 1970 del controverso libro The Anarchist Cookbook, che consiste in una serie di tutorial e istruzioni indispensabili al vero guerrigliero anarchico (da come fabbricare il napalm in casa a come trasformare una pistola in un lanciagranate), che nel corso degli anni ha sollevato non poche polemiche in quanto citato come fonte di ispirazione da diversi stragisti, tra cui gli autori del terribile massacro di Colombine nel 1999.
Per prima cosa: è importante precisare che American Anarchist, più che un documentario, sembra essere un’intervista vera e propria, inframezzata da sporadici contributi video che ritraggono infanzia e gioventù dello scrittore americano. Nonostante un format all’apparenza così scarno però, il documentario di Siskel riesce a distinguersi tra la miriade di interviste più o meno famose a personaggi controversi per un motivo: diversamente da quella di altri personaggi magari ben più deprecabili di Powell, quella dell’ex-anarchico americano è una storia di pentimento.

Il Bill Powell che vediamo già dalle prime inquadrature del documentario infatti non è una versione invecchiata del giovane ribelle che 46 anni fa sfoggiava una barba alla Fidel Castro e dei modi a dir poco sopra le righe nella sua prima conferenza stampa, ma è un tranquillo uomo sulla sessantina, ritiratosi in un piccolo paesino della Francia rurale, ex insegnante specializzato nella cura di studenti con difficoltà psicofisiche: insomma, non esattamente l’identikit del perfetto anarchico. Le prime domande di Siskel riguardano principalmente la scrittura del libro, il suo bacino di utenza e i motivi che avevano portato il giovane Bill, figlio di un importante funzionario delle Nazioni Unite, a scrivere un manuale del genere.

Ma passata questa fase tanto interessante quanto scontata, Siskel comincia a interrogare il suo intervistato sul ruolo sociale che The Anarchist Cookbook ha avuto negli anni, soffermandosi soprattutto sul rapporto del libro con episodi di violenza o addirittura di stragismo, senza risultare né pedante né scomodo, ma nel modo più limpido possibile. Quando vengono chiamate in causa le stragi che hanno stroncato o quanto meno stravolto le vite di migliaia di studenti – gli stessi studenti a cui Powell ha dedicato la seconda metà della sua vita – provocate da squilibrati ispirati proprio dal suo manuale, l’ex scrittore non può che prodursi in un mea culpa prima soffocato e un po’ imbarazzato, poi apertamente sincero.

Il documentario diventa così una mirabile riflessione sulle conseguenze delle scelte avventate e delle decisioni del passato, sul contrasto tra il noi di ieri e il noi di oggi. Insomma, anche se dal punto di vista documentaristico American Anarchist non può certo competere con altri film di inchiesta, come ad esempio quelli di Michael Moore (con cui tra l’altro Siskel ha lavorato come assistente all’inizio della sua carriera), tuttavia si presenta come uno spaccato interessante sulla vita di un personaggio sconosciuto ai più, oltre che a una seria e ragionata riflessione sulle conseguenze di ciò che diciamo, scriviamo e pubblichiamo.