Il Concorso Internazionale della 74° Mostra del Cinema di Venezia inizia a muovere i suoi passi verso la conclusione, e uno degli utlimi film che vedranno lo schermo della Sala Grande è Angels wear white, della produttrice e regista Vivian Qu, già fattasi conoscere con Trap street.

Wen e una sua amica, studentesse spensierate, vengono aggredite nottetempo in un motel. L’unica testimone è una ragazza, la receptionist Mia, che per evitare di perdere il lavoro rifiuta di parlare. Ciononostante sarà coinvolta nuovamente nella faccenda da Wen, che ha scoperto che l’incubo per lei è appena cominciato. Le due dovranno cavarsela da sole, ognuna per conto proprio.

Thriller misto a dramma in cui i due generi formali primeggiano alternativamente l’uno sull’altro, Angels wear white è un film che spezza i ponti con Trap street, per ricondurre le regia di Qu su binari più canonici. Tempo scadito dall’acceleratore a tavoletta e montaggio regolato da un invisibile metronomo sono le cifre tipiche di una recente tipologia di cinema che abbiamo imparato a conoscere recentemente, a stupire in questo caso è il fatto che l’opera in questione sia di origine orientale. Della scuola di provenienza non ha né quindi la gestione compassata dei tempi né la voglia di mettere in scena il consueto ribaltamento multiplo tra concetti istituiti di bene e male ben separati ma capaci di scambiarsi improvvisamente di posto. L’integrità ostentata da questo film della Qu riesce a dare fastidio allo spettatore, come se salisse in cattedra con la presunzione di raccontare l’ambiguità attraverso separazione dicotomiche sin dall’inizio. La verità in tasca di chi spera di salvarsi condannando il peggio di sè, come se la logica del paragone fosse l’universale.

L‘insistere così puerile sulla purezza da parte del film, nella temerarietà cocciuta delle due protagoniste, una pre-adolescente e una post-adolescente, si riflette nel candore perenne di cui sono rivestite. Il titolo è programmatico in questo senso, ovverosia viene preso letteralmente troppo sul serio, al punto che questo attaccamento alla virtù diviene quasi morboso. Questo ridondante reiterare dell’innocenza (tratto caratteristico della fanciullezza, ovviamente) come unico mezzo per conseguire la giustizia ed evitare il peccato, sempre moralmente definibile tour court, perchè Qu evita in maniera rigorosa il dubbio dello spettatore, anzi, diventa noiosa nel ribadirlo a tutti costi,, riflette a sua volta un concetto naïf della società e dell’affetto, nichilista e decadente per l’immagine che crea ma con la soluzione (facciamo pure scorciatoia) nella mano nascosta dietro la schiena.

Nonostante però l’ingenuità della messa in scena, non si possono riconoscere all’opera seconda di Qu alcuni meriti, in primis sicuramente la capacità di gestire alla meglio le due storyline parallele, senza farle convergere e anzi, allontanandole sempre più l’una dall’altra per passare gradualmente da atmosfere tese a una narrazione drammatica che riesce a risollevere la gestione dei tempi in un crescendo di toni cupi che lasciano respirare il film, paradossalmente.

In conclusione, Angels wear white è un film altalenante con una buona base, parlando di script, che però viene rovinato dall’approccio troppo semplicistico nella realizzazione extra-tecnica. In sostanza, il testo, o meglio, il corpo del film è certamente solido e interessante, tolte le varie e ingenue digressioni sulle influenze della società (stereotipate e di rara stucchevolezza, come la metafora dei piedi della statua di Marilyn; grossolana), ma è il sottotesto, tutto ciò che giace sotto la superficie ad affossare fotogramma dopo fotogramma ogni buon proposito di questa seconda prova alla regia per Vivian Qu, esaltando la componente più immediata e facilona di ogni sequenza e nascondendo invece quanto c’è di più intrigante, oscuro. Da guardare ma non con troppa attenzione.