Film d’apertura della 74ª edizione del Festival di Cannes, Annette segna anche il ritorno dietro la mdp del grande Leos Carax, come suo solito mai frettoloso quando si tratta di girare. Sono passati ben nove anni da quell’esuberante Holy motors che passò in secondo piano, sempre a Cannes, per “colpa” di uno dei film più fondamentali dell’ultimo decennio (Post tenebras lux di Carlos Reygadas), e prima di allora ne erano trascorsi altri tredici dopo Pola X. In linea generale gli ultimi tre film dell’enfant terrible della New French Extremity sono stati opere seminali e foriere di novità nello stato dell’arte del cinema francese. Cosa aspettarsi dunque dall’esordio in lingua inglese da parte di un autore che, in un senso o nell’altro, porta sempre a discutere, anche solo in virtù del fatto che le sue creature sono tanto gravide di suggestioni quanto complesse da interpretare?
Holy motors va citato perché condivide con Annette l’idea di rivolgersi alla società dello spettacolo, e poi la logorrea di immagini, invenzioni, stravolgimenti e cambi di registro. La narrazione d’altro canto non è certo altrettanto disarticolata: al centro di tutto la bizzarra storia d’amore tra Henry McHenry (Adam Driver) e Ann Defrasnoux (Marion Cotillard), lui stand-up comedian dall’umorismo sagace e tagliente, lei soprano eccezionale. Nel contesto losangelino, tra attenzione mediatica e divismo, si sviluppa una relazione che funziona perfettamente fino a quando non danno alla luce una figlia, l’eponima Annette (un pupazzo!) che col passare dei minuti rivelerà un’inquietante dono artistico. Da quel momento in poi il rapporto fra Henry e Ann inizia a sfasarsi: la carriera di lei decolla, si conferma un interprete di talento e sentimento eccezionali, lui inizia un lento declino psicologico che lo porta gradualmente a uscire di scena. Il risentimento originato da questa situazione porterà Henry a intraprendere un percorso distruttivo che si concluderà nel peggiore dei modi.
Ann è solita dire, dopo le sue performance, di esser riuscita a “salvare” gli spettatori, Henry di averli “fatti a fette”, paradigmi diversi di intendere il ruolo e lo svolgimento dell’azione catartica nelle rispettive arti. Qui si origina lo iato trai due, solo in apparenza colmabile, quando uno distrugge (in tutti i sensi), e l’altra costruisce, perché prima di ogni altra cosa, Annette è imperniato sulla risemantizzazione del ruolo maschile sia nel panorama artistico-culturale che in quello dello spettacolo. Carax riflette sul processo di decostruzione occorso negli ultimi anni alla figura maschile nella sua autorappresentazione, improvvisamente caricata di incertezze, fragilità, false sicurezze, che deflagra nella paura del fallimento, del suo verificarsi, e delle conseguenze del dover ricominciare; e la provocazione principale quindi si sviluppa lungo i binari di una coppia marcatamente simbolica, dal punto di vista narrativo, mediante la sovrapposizione dei topoi più classici, quelli biblici e fiabeschi (si veda Ann che mangia solo mele rosse, un po’ Eva, un po’ Biancaneve). La storia di Henry, il vero protagonista di questa storia giacché Ann viene da lui preterintenzionalmente uccisa a metà del film, è quindi una caduta dal paradiso terrestre (della celebrità) alla dimensione della mediocrità e della debolezza, che lo “costringe” a svendere il talento magico della bambina-bambola per mantenere il vecchio stile di vita, ottenuto grazie alla moglie e perpetuato prodigiosamente dalla di lei voce per bocca della figlia.
E a quanto pare non abbiamo ancora fatto menzione del fatto che stiamo parlando di un musical. Un musical multiforme, stratificato e atipico, capace di cangiare generi e stili come un polpo: insomma, un anti-musical, quel non-genere di film come Dancer in the dark, Season of the Devil, o il dittico Jeannette–Jeanne, del tutto differente dai canoni della categoria – al netto della somiglianza, registrata da moltissimi tra pubblico e critica, tra la scena iniziale e l’incipit di La la land – in grado però di mutuarne la forza espressiva.
Le sequenze cantate – musicate interamente dagli Sparks – non sono quasi mai caricate o coreografiche in senso stretto, assomigliano più a intermezzi congruenti (che spaziano dal glam rock alla lirica senza vie di mezzo), inseriti in un contesto che non li fa nemmeno sembrare eccezioni, tanto questo è roboante, nel vero senso del termine: Annette è un fluviale blocco monolitico di eccessi, costantemente sopra le righe, pomposo e pompato (di colori, di movimenti), al punto che sequenze musicali – anche le più caricaturali e grottesche, come quella del parto – sembrano perfettamente in linea con lo spirito della narrazione.
Ma se questo gargantuesco ammasso pieno di inventiva in ogni sua sequenza e spiccatamente eterogeneo nelle forme viene retto da una pregiata compattezza di fondo, invece a livello di impatto sullo spettatore sortisce l’effetto opposto, vivendo di momenti scompagnati, figli a loro volta alternativamente o di brillanti intuizioni registiche, o di scene madri scientemente grottesche, o di grandi performance da parte di una coppia di attori straordinaria; e su Adam Driver in particolare andrebbe aperto un capitolo a parte, attore di capacità a ogni film più vaste con l’aura dell’anti-divo che proprio non gli si toglie di dosso.
Carax perde e ritrova il filo a più riprese, ogni tanto adagiandosi su intermezzi cantati troppo simili, esibendo un colpo di genio inaspettato nei momenti più anticlimatici (si veda il piano-sequenza del direttore d’orchestra a metà del film), e insistendo su una magniloquenza visiva e sonora non sempre perfettamente governabile, nemmeno da lui. Dall’attacco, che è proprio un attacco musicale e mette subito le cose in chiaro, fino alla sorprendente conclusione, Annette deborda, crea confusione, mischia le carte in maniera parossistica in cerca spasmodica del caos, tira un carico dopo l’altro senza badare al ritmo come in un’isterica mano di briscola, con un approccio coerente al suo stile pletorico: facciamola breve, Annette è puro casino, è consapevole, sofisticato, ricercato casino. A mancare è l’ultimo passo, un fil rouge in grado di far intravedere, in mezzo all’implosione generale delle regole filmiche, un vettore preciso che orienti la sovversione. Ovvero quel fattore sottile capace di cambiare radicalmente l’esito finale dell’esperienza. Il risultato ultimo è quindi un mastodontico panettone gastronomico che rimane fisiologicamente un po’ indigesto sebbene godibile, ricolmo di una densità di elementi tale che si potrebbe discuterne per una giornata intera senza aver esaurito nessuna delle tracce principali, ma che alla lunga – ed eccezionalmente, trattandosi di un film di Leos Carax -, nonostante la quantità dischiusa, di sé lascia un ricordo niente affatto ricco e fertile.