A distanza di sei anni dall’esordio Gukōroku, Aru otoko – titolo internazionale A Man – rappresenta per il regista Ishikawa Kei un ritorno alla detective story dal piglio drammatico, con la figura dell’investigatore infaticabile a ergersi sulla supposta mediocrità dei suoi comprimari piccoloborghesi. Peccato che, nonostante gli anni – e le pellicole – trascorsi, Ishikawa non dia segni di miglioramento né sul piano dello storytelling né dell’approccio all’immagine, riconfermandosi uno dei tanti “dimenticabili” del panorama giapponese contemporaneo – su cui grava l’ulteriore demerito di un soggetto originale di ottima fattura letteraria non sfruttato appieno.

Aru Otoko A man

Dopo il divorzio e la morte del padre, RieAndō Sakura, diretta da Kore’eda nel fortunato Shoplifters, e ancora prima da Sono e Miike – versa in uno stato di prostrazione psicologica, dal quale riesce progressivamente a risollevarsi grazie alla frequentazione con DaisukeKubota Masataka, noto volto televisivo sovente prestato al cinema di largo consumo, come l’ultimo live action di Tokyo Ghoul del 2019 –, boscaiolo da poco arrivato sulle montagne del Tōhōku. Qualche anno più tardi, la vita della coppia viene stravolta dalla morte di lui per un incidente sul lavoro: sarà proprio al suo funerale che, con grande sgomento, Rie apprenderà che il suo ultimo marito non era chi diceva di essere. Convocato da Yokohama per risolvere il caso, l’avvocato Kido Akira – il cantante e attore Tsumabuki Satoshi, già protagonista dell’opera prima di Ishikawa – si adopererà per svelare la verità dietro questo scambio d’identità, arrivando a portare a galla i segreti di un passato tormentato.

Tratto dal romanzo omonimo di Hirano Keiichi, uno degli scrittori giapponesi contemporanei più tradotti all’estero – nonché giovanissimo vincitore del prestigioso Premio Akutagawa per il suo esordio Nisshoku nel 1998 –, Aru otoko riporta subito lo spettatore alle atmosfere cupe e dense di non-detti dell’esordio, suggerendo un parallelismo – forse financo troppo insistito, viste le volte in cui quest’ultimo viene riproposto registicamente ogni qualvolta la mdp incrocia una superficie riflettente – tra il celebre dipinto di Magritte La reproduction interdite e la figura di Kido, un personaggio a sua volta frustrato da un’identità ambigua – o almeno, così sembrano pensarla gli altri personaggi: egli è infatti uno zainichi – lett. “residente in Giappone”, riferito ai coreani di seconda generazione e più che, stabilitisi nell’Arcipelago ai tempi dell’occupazione, sono diventati a tutti gli effetti di lingua e cultura giapponesi pur non possedendo di fatto la cittadinanza –, una sorta di “impostore” che, al pari degli uomini su cui sta indagando, nasconde dietro una facciata rispettabile dei natali non proprio eccelsi.

Aru Otoko A man

Tale volontà di mettere in luce il razzismo e il pregiudizio verso i coreani naturalizzati giapponesi, una costante del discorso pubblico che si rinverdisce periodicamente grazie alla strumentalizzazione di casi di cronaca – i rapimenti a opera dei lealisti della Corea del Nord – e a teorie del complotto mai del tutto respinte dai media istituzionali – basti pensare che diverse emittenti nazionali, all’indomani dell’attentato all’ex Primo Ministro Abe, ci tenevano a sottolineare le origini coreane dell’omicida, poi smentite ufficialmente –, potrebbe sulle prime apparire un punto a favore dell’ultima fatica di Ishikawa, soprattutto in un contesto politico che proprio in questi ultimi anni sta facendo leva sul nazionalismo per giustificare la chiusura verso l’esterno – arrivando in taluni casi estremi anche a incoraggiare atteggiamenti xenofobi. Tuttavia, il personaggio di Kido, esattamente come la maggior parte degli zainichi, non vive nessun dissidio interiore: sono semmai le allusioni più o meno velate di quelli attorno a lui – il suocero, l’intermediario incarcerato per frode – a farlo sprofondare nello sconforto, senza che però questo arrivi a innescare un vero processo di introspezione, dal momento che egli sembra totalmente assorbito dalla sua missione di avvocato.

A questo punto, le possibilità sono più verosimilmente due: o Ishikawa ha mancato di problematizzare compiutamente il discorso sul suo protagonista e il suo background etnico, forse nell’intento di dare una punta di colore in più al classico protagonista da dorama altrimenti privo di spessore; oppure egli sta indirettamente avallando la stessa narrativa nazionalistica che pretenderebbe di criticare, dal momento che fa gravare una stereotipica ombra di doppiezza o, più semplicemente, di incertezza su un personaggio che avrà sì ascendenze coreane, ma in alcun modo vede questo come una interferenza nello spettro della propria identità.

Più in generale, nel tentativo di mettere a nudo le ipocrisie della ordinata società giapponese, partendo dal pregiudizio etnico verso gli zainichi e verso i coreani tutti – descritto con grottesca accuratezza da Ōshima ne L’impiccagione (1968) – arrivando fino all’idiosincrasia per il concetto di redenzione e lo stigma sociale che grava sui carcerati – anche qui, vale la pena ricordare un esempio di sano spirito di contestazione dal passato, L’anguilla (1997) di Imamura Shōhei –, Aru otoko risulta in fin dei conti afono e privo di mordente, un’opera rivestita di una spessa patina autoriale, costituita da riferimenti pittorici e un’elegante fotografia in penombra, che però nasconde al suo interno il classico prodotto medio – e non in senso lusinghiero, vista la parabola discendente percorsa dall’industria cinematografica nipponica di oggi.

Aru Otoko A man

Appesantito da un colpo di scena – la terza identità rubata che si aggiunge alle due già note – che si dimostra essere un mero espediente per allungare il brodo, apportando poco o nulla sia alla caratterizzazione dei personaggi che alla soluzione dell’intreccio, Aru otoko presenta inoltre una nascosta vena sciovinista che si esplica nella sua superficialità nel trattare temi politici scottanti, che avrebbe fatto meglio a non disturbare.