Siamo di fronte all’entrata di un ex-campo di concentramento, e la famigerata e paradossale iscrizione “Il lavoro rende liberi” non accoglie più le vittime del delirio nazista, ma torme di turisti accaldati e piuttosto distratti.
Che l’ucraino Sergej Loznica preferisca far parlare le immagini lo abbiamo imparato da alcuni dei suoi lavori documentali più noti e riusciti (Majdan, 2014 o The Event, 2015). Egli le “fa parlare” per forza propria, nel senso che il suo approccio è ben poco didascalico e tutt’altro che tendenzioso, in quanto lascia alle nostre conoscenze pregresse e alla nostra capacità d’indagine e ricostruzione il compito di tirare le somme, sempre che abbia un senso tirarle e che il risultato sia univoco… Non ci aspettavamo dunque un commento in voice-over né una lezioncina facile sui lager, ed è bene, molto bene che il nostro non ci abbia affatto deluso.
In assenza di facili griglie interpretative, rimaniamo così spiazzati, “delocalizzati”, fin dal titolo, che non si riferisce affatto a luoghi bellici ottocenteschi, bensì (il booklet di accompagnamento ci viene in soccorso) all’ultimo e definitivo romanzo omonimo del tedesco Winfried Sebald, che narra del viaggio mentale ed esistenziale di Jacques Austerlitz, il quale ricostruendo le proprie origini viene a conoscenza del campo di concentramento di Terezin, in Repubblica Ceca. Un riferimento germanofono dunque, e di produzione tedesca è lo stesso film, all’interno di quello che sembra essere un felice incontro di commissione ed ispirazione personale.
Ci viene in mente a questo proposito il bel romanzo breve del ceco Jachym Topol, L’officina del diavolo, che parte anch’esso dal ghetto di Terezin e si muove verso la Bielorussia (non lontano dunque dalla cittadina dove Loznica stesso è nato), per ipotizzare l’esistenza di una sorta di luna-park degli orrori bellici/concentrazionari. Anche nel romanzo di Topol l’ispirazione alla base del racconto era tedesca (un soggiorno di studi in Germania dell’autore boemo), per cui non sembra del tutto casuale la consonanza fra artisti slavi di vaglia e desiderio tedesco di affrontare in ampiezza e continuità l’Olocausto e le sue anche più inattese appendici.
Che Loznica si confermi uno degli osservatori più adatti a meditare in maniera non-invasiva sull’invasività del fenomeno del “turismo concentrazionario” lo garantisce la secchezza ed essenzialità delle sue scelte di montaggio e strutturazione. Pur non avendole contate, ci sembra di rammentare al massimo non più di venti/venticinque inquadrature, rigorosamente fisse, che lasciano scorrere il flusso dei visitatori a volte con la sottotitolatura dell’accompagnamento verbale di sottofondo, a volte con mormori turistici indistinti che la produzione (?) decide di non fornire di traduzione.
Il tutto a conferma di un assunto rispettoso per cui ogni parola detta sull’Olocausto è una parola in più. Forse, anche sulla scorta di questo Austerlitz e del non-mostrato de Il figlio di Saul, altri maestri come il Konchalovskij presente in concorso in questa stessa edizione della Mostra, potrebbero riconsiderare, o per lo meno, “asciugare” la parlantina un po’ patetica di film concentrazionari un po’ troppo tendenziosi e centrati sulla lezioncina verbale diretta (diremmo: frontale).
Secondo Loznica non ci resta altra soluzione che osservare e meditare, non tanto sulla tragedia in sé, ma su uno degli sviluppi più imprevedibili in cui essa è curiosamente sfociata, il pellegrinaggio sui luoghi della Memoria, di certo non esecrabile di per sé, ma forse degno di una regolamentazione rituale che ne rispetti ed evidenzi il portato semantico. Siamo nello specifico a Sachsenhausen. Non è dunque la Terezin ceca del romanzo di partenza, non è neanche “IL” campo di concentramento per antonomasia, quell’“inflazionato” Auschwitz cui il cinema di finzione ha debitamente e ripetutamente rivolto la sua attenzione.
Inflazione mediatica, o forse superficializzazione del lutto: è proprio questo uno dei filtri semantici attraverso cui passa l’autore. Dove sta il confine fra il pietoso omaggio alle vittime e l’imprescindibile obbligo della Memoria da un lato e la commercializzazione dell’Olocausto dall’altra? Ha senso ed è etico trasformare in un tipo diverso e aggiornato di “esperienza di massa” quello che è stato il più massiccio e collettivo sterminio degli ultimi secoli? Quali possono essere dunque i corretti metodi di “fruizione”, o meglio di studio e conservazione dei luoghi della Memoria?
Guardando le greggi assopite e costantemente affamate che fra un sorriso e uno schiamazzo affollano forni crematori e luoghi di tortura, ho ripensato alla serie di luoghi simili che ho visitato (animato dal massimo rispetto possibile, ca va sans dire), che si trattasse di crimini nazisti o meno: la stessa Terezin a poca distanza da Praga, Lidice, luogo di ulteriore sterminio nazista in Boemia, i memoriali di Berlino e di Kiev dedicati alle vittime della guerra mondiale e delle carestie. Per quanto possibile ho sempre provato a ritagliarmi un momento e un’esperienza individuale, o, altrimenti detto, “meno collettiva” possibile. È forse questa una delle chiavi di lettura di questi tableau antropologici (ma anche “zoologici”) di Loznica: finché la visita di un luogo segnato dal Male assoluto sarà incanalata in modalità comuni e deritualizzate, essa sarà inefficace, quando non addirittura offensiva.
Si pensi al paradosso (genialmente generato dall’ucraino con modalità di puro accostamento) fra luoghi di sofferenza estrema per inedia e mancanza di spazio vitale e il continuo ruminare dei turisti in canottiera che lamentano di non avere tempo a sufficienza per consumare uno spuntino fra una camera a gas e l’altra. Il finale, poi, nella sua algida, insistita e impietosa fissità frontale, sembra quasi richiamare (i colleghi più filologici e precisi mi perdonino il paragone un po’ azzardato) l’uscita dalle fabbriche di film socialisti e, perché no, anche da quella famosa e seminale usine Lumière: le folle un po’ affaticate, ma ancora vive, sembrano reduci da una normale giornata di lavoro, come se quella visita frettolosa fosse una sorta di pegno da pagare senza troppa convinzione per poter poi dichiarare “sì, ho visitato un lager”.
In fondo la famigliola che si fa fotografare sotto la scritta “Arbeit macht frei” o il padre di famiglia che ritrae la madre dei suoi figli di fronte alla bocca di un forno crematorio sono fenomeni della stessa pasta dei curiosi che si fermano sui luoghi degli incidenti stradali o che fanno turismo da sciacalli davanti alla Costa Concordia. È la incommensurabilità di un sito concentrazionario con la foto-ricordo, l’immoralità del selfie scattato davanti ai capannoni di prigionia, che stride e ferisce in questo documentario raffreddato, a volte “gelido” per la sua acutezza di silente osservazione.
Dalle note di regia traiamo poi questa considerazione finale: “Perché una coppia o una madre con il suo bambino vanno a vedere i forni crematori in una bella giornata di sole estiva?”. Non è un caso infatti che Loznica (che proprio ingenuo non è…) abbia scelto un giorno in cui il sole spacca le pietre per fotografare l’ignoranza di massa che si muove in cerca di ombra e refrigerio piuttosto che di spunti di comprensione. E sia pure questa un’ignoranza incolpevole e volenterosa, nel migliore dei casi, posta qui abilmente in netto contrasto con la coscienza totale dell’abominio in cui erano immersi i prigionieri; ma rimane comunque ignoranza di massa, che una annoiata e automatizzata narrazione delle guide turistiche non potrà scalfire più di tanto.
Ed è in questo contrasto suggerito e non urlato, in questa silente critica all’impossibilità e sostanziale inutilità di tali metodi di fruizione/conoscimento, che sta il dubbio morale che l’autore ci instilla: forse l’unico modo per “fruire” tali luoghi è recarvicisi da soli, affamati e senza aver pronto sotto mano il sacchetto della merenda, in una notte tempestosa e senza la certezza dell’ora e del giorno in cui il caro, tranquillo e cibo-munito autobus dell’agenzia turistica ci verrà a riprendere. Sempre che ci venga a riprendere.