Regista, attrice, produttrice, Tahmina Rafaella, dopo il cortometraggio A Woman (2020) torna a parlare, in un lungometraggio, con coraggio, schiettezza e senza fronzoli della condizione della donna in Azerbaigian.

Sullo sfondo del secondo conflitto nazionalista dell’Azerbaigian in guerra per annettere la regione asiatica del Nagorno-Karabakh, dove il patriottismo è una religione e i martiri sono venerati e presi come ispirazione anche nelle scuole primarie, Banu (Tahmina Rafaella) è una giovane donna e madre che lotta per avere la custodia del figlio durante il divorzio burrascoso.

Per il marito, Banu ha rinunciato a tutto, soprattutto al suo amato lavoro da insegnate di inglese. Ha impiegato anni di violenza a comprendere che non è lei a essere inadeguata, ma è il concetto stesso di patriottistmo che va cambiato, è il sistema patriarcale fatto di paradossi, un circolo vizioso, che va spezzato, smembrato per poter avere una svolta sociale.

La regia è convenzionale, ma Tahmina Rafaella con un perspiscace onestà intellettuale (la sceneggiatura è sua) riesce a raccontare attraverso la lotta di Banu una storia universale “voglio che il pubblico metta in discussione la connessione tra guerra e patriarcato attraverso l’esperienza di una donna di combattere per la custodia di suo figlio nel mezzo della guerra in cui migliaia di donne perdono il loro”.