Il penultimo film film della Biennale College di Venezia 74 porta una firma italiana ma è ambientato in America, un semi-documentario abbastanza particolare.
Van, Andrea, Danilo e Vito non hanno la minima idea di essere figure indispensabili nel quadro dell’economia mondiale, e del resto nemmeno altri. Ma il loro lavoro, che riguarda ciascuno una fase dello smaltimento rifiuti su scala globale, è fondamentale per lo stile di vita occidentale.
Ci troviamo di fronte dunque a un prodotto ibrido, a metà tra doc e video-arte, che con un lavoro di messa in scena dà linfa assolutamente nuova a un tema comunque attuale. Attraverso le mansioni dei quattro protagonisti, che si raccontano in interviste frontali, assistiamo a un esempio del ciclo di produzione degli oggetti che oramai caratterizzano la vita di tutti i (nostri) giorni. Dall’estrazione del petrolio al trasporto merci navale, dal collaudo allo smaltimento. Aiutandosi con dati immediati e semplici paragoni intuitivi Ferrero ci racconta il processo nella sua interezza e tutte le conseguenze che origina, non soffermandosi tanto sul pericolo ce ne deriva e sugli sprechi, quanto sul fatto che tutto questo mondo che lui ha portato su schermo dopo ben dieci mesi solo di riprese non esiste nella quotidianità, pur essendone di fatto la genesi. Tanto nel quartetto dei lavoratori quanto in noi spettatori (simboleggiati da due ipotetici Lui e Lei) non v’è la minima traccia dell’idea del perno irrinunciabile che questo mondo sotterraneo rappresenta per la stessa logica occidentale, se non per la sua cultura, e Ferrero lo porta sullo schermo, tanto accurato nella descrizione quanto sagace in regia.
L’approccio del film è quindi prima effettivamente audio-visivo che informativo: la musica fa da padrona, con la partitura elettronica di sottofondo che va a mescolarsi con i rumori degli ambienti, l’armonia naturale dell’ambiente che si sovrappone con quella artificiale del documentario (come ci ricorda Vito). Sempre presente, fuorché durante le interviste (l’unico elemento lineare del film), la musica insistente ci trasporta in una dimensione rivelatrice per quanto riguarda gli ingranaggi nascosti nella Terra. Già da metà dell’opera il neo-regista italiano inizia a calcare con il montaggio trasformando il tutto in un prodotto molto vicino alla video-arte per essere catalogato come documentario, ma che comunque ha come scopo primario il racconto di una verità, e certo non insignificante. Si tratta quasi di un urlo selvaggio e soprattutto vitale che con l’arte si raffina, si eleva in quest’opera d’esordio che diventa una sinfonia. E con il finale questo urlo si fa propriamente polifonico, in un crescendo di un montaggio serrato e simbolistico in cui i suoni si sommano uno dietro l’altro accavallandosi in una polifonia epica e surreale. La discarica, cioè l’ultimo luogo visitato dall’opera (quello in cui lavora Van, addetto alla smaltimento massivo di rifiuti) è anche il luogo dove Ferrero si lascia andare alle visioni: i sogni e i ricordi più sentiti dei quattro uomini rimangono in quel luogo putrido e in un turbinio si suoni, purtroppo, e immagini e luci che si mischiano in modo promiscuo diventano l’elegia per questi uomini sì sostituibili nella persona ma non nel ruolo. E l’ultima cosa a comparire sono di nuovo i loro volti, sorridenti, speranzosi e vitali. Sono preceduti da un attacco meraviglioso del regista allo spettatore, con un lunghissimo, roteante e lisergico piano-sequenza che vede i succitati Lui e Lei, proprietari della casa degli intermezzi, strapiena delle eponime “bellissime cose”, ballare e giocare spensierati, perché, esattamente come noi, non sanno nulla, e anche dopo averlo saputo, non faranno nulla; come noi.
In conclusione, Beautiful things è uno dei migliori esordi italiani degli ultimi anni, e il fatto che sia stato finanziato da un progetto come quello della Biennale College non può far altro che onore alla Mostra. Certo, non si può negare un certo elemento kitsch o voglia d’esagerazione, ma avercene di film così.