La soglia tra la vita e la morte è sempre più sottile quando di mezzo c’è Beetlejuice, lo spiritello scorreggione e insolente che ama intromettersi nelle vicende terrene (e non) dei tristi e banali esseri umani. Per il “bio esorcista” a buon prezzo, l’occasione per rimettere piede nell’aldiquà arriva quando Charles Deetz muore rocambolescamente e la sua disfunzionale famiglia è costretta a tornare a Winter River, nella casa dei fantasmi dove tutto è cominciato.
Trentasei anni dopo il celebre cult Beetlejuice (1988), torna sul luogo del delitto anche Tim Burton, riportando sul grande schermo uno dei suoi personaggi più irriverenti e amati, non senza il rischio di scontentare fan vecchi e nuovi. Rimettere mano a materiale sensibile infatti, quasi leggendario per cinefili e cultori del regista di Edward mani di forbice, non poteva che rappresentare un’arma a doppio taglio, per rimanere in tema. L’operazione, in questo caso, è riuscita a metà. Improponibile ripensare a un film dirompente e originale come quello di fine anni ’80 (forse non esistono nemmeno più le condizioni per quel tipo di cinema artigianale e provocatorio a Hollywood). Inutile sperare di coagulare nuovamente in un magico equilibrio tecnica e creatività, sguardo personale e successo generazionale.
Così Burton, in maniera intelligente, sceglie la strada meno rischiosa, quella tra citazionismo e contemporaneità, senza calcare troppo la mano in nessuna delle due direzioni. Il risultato è un film in larga parte normalizzato, convenzionale, che strizza l’occhio a tematiche e sguardo per il grande pubblico, ma non privo di alcune intuizioni visive e soprattutto musicali in grado di provocare qualche sussulto anche nei seguaci dello “spiritello porcello” (così recitava il controtitolo italiano del primo capitolo, in linea con il mood del tempo) inventato dal genio di Burbank.
Mentre accarezza atmosfere dalle tinte dark/horror, la storia di questo sequel si concentra sulle problematiche relazioni familiari tra Delia (Catherine O’Hara), Lydia (Winona Rider) e Astrid (Jenny Ortega), nonna, madre e figlia costantemente messe alla prova da follie egocentriche e traumi di varia natura a cui l’esperienza paranormale ha solo dato un boost ulteriore. Se Delia sembra aver rimosso il primo spericolato incontro con Beetlejuice, Lydia ha fatto della sua sensibilità ectoplasmatica un lavoro (con il compagno produce un format TV sulle case infestate) che però la allontana dalla figlia Astrid la quale, a sua volta, preferisce credere ai dati scientifici che dimostrano l’emergenza climatica piuttosto che ai fantasmi percepiti dalla madre.
La trama, persino troppo articolata, è pretestuosa, basti pensare all’inserimento posticcio della malefica “succhia anime” Monica Bellucci, compagna nella vita del regista. E non sarebbe nemmeno un problema se non finisse per ridimensionare consapevolmente la verve istrionica di Beetlejuice, il personaggio interpretato ancora con carattere da Michael Keaton, riuscendo persino a rendere più “umano” il diabolico mattatore. Ne scaturisce un film per tutti, e forse un po’ per nessuno.