Continuando la riflessione iniziata in Spira Mirabilis – in Concorso a Venezia73 –, l’ultima fatica del duo D’Anolfi–Parenti è un racconto dell’umanità che estromette l’umano dal proprio campo visivo, in cui l’utilizzo dei materiali d’archivio, giustapposti alle riprese in loco – anch’esse quasi archivistiche nel loro rigore documentario, e nella distanza osservata tra obiettivo e oggetto di ripresa –, si fa rivendicazione di un approccio al mezzo-cinema che rimette al centro la forza cogente del montaggio quale portatore/creatore primo di senso. Fuori Concorso, per la sottocategoria Non-fiction.
Gli spezzoni di film di animali esotici e non, fonte di meraviglia per scienziati e collezionisti del secolo scorso, si alternano alla cronaca della routine dell’ambulatorio di un veterinario specializzato in bestie circensi. Conclusi i bestiari, si passa quindi agli erbari tanto cari alla tradizione medievale europea, a loro volta materiale d’archivio, certo, ma di cui si può avere un riscontro immediato nell’hortus, il giardino recintato di umana fattura per ricreare le condizioni ideali della Natura – e di cui l’Orto botanico di Padova rappresenta l’epitome. Da ultimo, è il turno del regno minerale dei lapidari, la cui immagine granitica e inamovibile contrasta con l’uso che delle pietre fanno i nostri contemporanei, liquefacendole e rimodellandole affinché possano farsi veicolo di memoria storica.
Diviso in tre capitoli, ogni sezione di Bestiari, erbari, lapidari si allontana progressivamente dalla presenza normativa dell’Uomo, anzitutto a livello sonoro. Le voci degli archivisti della sezione dei bestiari, che illustrano con dovizia di particolari lo scopo – studiare il comportamento animale onde meglio controllare i propri simili – o il portato ideologico – la figura dell’animale impressa su pellicola, anche quando non ritratto nell’atto di essere catturato o ucciso, sancisce il primato della tecnica sulla Natura apparentemente indomita – dei frame selezionati, sono sostituite dalla voce registrata di un professore di botanica – a sottintendere come, ironicamente, il corpo umano e le sue manifestazioni (voce) non siano meno vulnerabili alle manipolazioni tecniche di cui sopra – che ci racconta come, qualora la nostra specie sparisse dalla faccia della Terra, quest’ultima non avrebbe a soffrirne, essendo il 99,7% della biomassa composta da piante. Scompare, infine, nel capitolo dei lapidari, dove l’unico suono udibile è quello dei macchinari che, dall’estrazione della materia prima alla sua lavorazione in pietre d’inciampo, consentono la perpetuazione della nostra storia su supporti più durevoli, e che pure vanterebbero una storia ben più antica, espressa nella durata di ere geologiche.
Parimenti, la figura umana si rarefà visivamente di capitolo in capitolo, passando dai volti degli archivisti agli occhi e torsi dei tecnici di laboratorio e giardinieri, fino a ridursi alla sole mani degli impiegati del cementificio – nel cui lavoro si intromette tuttavia, per poche inquadrature, lo sguardo indagatore di un altro archivista, alla ricerca dei frammenti di pellicola che testimoniano della storia che sarà di lì a poco iscritta su pietra.
Ciò detto, non bisogna lasciarsi fuorviare da questo approccio “censorio” alla componente antropica. Bestiari, erbari, lapidari non è infatti un documentario sulla bellezza negletta della Natura, né tantomeno nasconde un invito a riconoscerle un qualche statuto superiore. Come sotteso dalla scelta della realizzazione della pietra d’inciampo quale chiusa dell’ultimo capitolo dei lapidari, D’Anolfi e Parenti ci ricordano, con grande onestà intellettuale, di quanto il creato acquisti significato solo quando si interseca con il vissuto individuale (umano), ovvero quando la tendenza innata a modificare quanto ci circonda prende il sopravvento sulla contemplazione.
In questo senso, se Spira Mirabilis (2016) dischiudeva una promessa di immortalità, articolata attraverso la descrizione delle molteplici risorse a disposizione dell’Uomo per rigenerare se stesso e le proprie creazioni, e Guerra e pace (2020, in Orizzonti) ancora ne dischiudeva una di autodistruzione, mettendo in luce le affinità tra settima arte e arte bellica, dove il richiamo verso l’oggetto rappresentato/attaccato nasconde l’impulso a voler annullare se stessi, Bestiari, erbari, lapidari apre forse alla promessa di una vita oltre la fine, dove la fine è quella della razza umana, ma mai fine tout-court. Non solo perché le piante e gli animali ci sopravviveranno, ma anche perché così faranno le nostre tracce, frutto di quella stessa tecnica che, forse a breve, condannerà i corpi umani alla mutilazione – come nel montaggio dell’opera in questione –, o all’oblio.
Custode di questa promessa sarebbe per l’appunto lo stesso corpo filmico di Bestiari, erbari, lapidari, che convocando in sé immagini di animali, piante, pietre che già non esistono più – o che, quantomeno, in questo istante non sono più come ci appaiono al momento della visione – scagiona l’Uomo dalla sua mortalità, incatenandolo al contempo ai suoi limiti.