Dopo quattro giorni di Bergamo Film Meeting, giunti agli sgoccioli della programmazione del concorso, salta ancora fuori qualcosa di interessante, in questa caso dalla Germania. Da quale altro paese, se non dalla patria dei filologi e dei rielaboratori della tradizione popolare fiabesca, poteva venire allora questo Rival? Un dramma psicologico costruito, appunto, sui topoi (in parte rovesciati) della fiabe classiche, primo fra tutti quello della tensione tra figlia e matrigna che tutti conoscono o possono rammemorare.
In questo caso, i tre vertici del triangolo familiare includono una madre, un figlio di nove anni e una sorta di patrigno, fondamento di un racconto claustrofobico che affida la sua potenza narrativa all’interpretazione del bambino – un incredibile, considerando che non è ancora adolescente, Yelizar Nazarenko -, diretto da un attentissimo Marcus Lenz, la cui regia si focalizza proprio sul valorizzare le interpretazioni dei suoi protagonisti.
Roman è un ragazzino di nove anni che ha vissuto i pochi anni che ricorda in Ucraina con la nonna. Alla morte di questa, si ricongiunge con la madre Oksana che lavora in nero in Germania come badante a tempo pieno per il vedovo diabetico Gert. Tra il bambino e l’anziano si instaura una relazione complessa: l’ultimo si dimostra inizialmente amichevole nei confronti del giovane, ma questi, più viene trattato come un nipote, più si allontana e inizia a odiare il “patrigno”, visto come un ostacolo alla pretesa di una completa attenzione da parte della madre; il bisogno di Roman è acuito dall’isolamento forzato in cui gradualmente sprofonda, dato che non conosce il mondo esterno e soprattutto la lingua, ma Gert ha sempre più necessità di essere aiutato perché peggiora a vista d’occhio.
I tropi del patrigno malvagio e del figlioccio maltrattato quindi si ribaltano: il primo prova a insegnare al secondo un po’ di tedesco, lo vizia proprio come farebbe un nonno, mentre dal lato opposto del versante c’è solo lo sguardo preoccupato e vigile di chi vede le proprie speranze di felicità sotto minaccia da parte della salute di Gert, in rapido deterioramento e dunque sempre più bisognoso del tempo di Oksana. Il film si articola, procedendo per sottrazione, in tre istanze: nella prima abbiamo il trittico al completo, nella seconda Oksana si ammala e Roman è costretto a venire incontro a Gert, ma quando il rapporto di distende e inizia a intravedersi una luce, questi viene ucciso da una crisi diabetica, e, nella terza e ultima, Roman di trova da solo, abbandonato a se stesso.
Il triplice incastro relazionale sembra semplice ma si rivela, specie nella prima metà del film, un’escalation di morbosità, culminata nel maldestro tentativo di avvelenamento ai danni dell’anziano da parte di Roman. Ricorda molto, pur senza la spietata durezza, il film più o meno recente Scalene (Zack Parker, 2011, USA), con cui condivide in primis l’architettura di microcosmo domestico tossico e potenzialmente esplosivo, e poi il senso per il tragico: Scalene iniziava con un episodio di violenza prolettico che condizionava l’intero tono della narrazione, mentre in Rival si ha la sensazione di un cronometro che continua a correre a ritroso verso l’inevitabile collasso del sottile equilibrio venutosi a creare. La situazione è chiaramente transitoria, ogni giorno la corda si fa sempre più tesa ma non si intravede nessuna strategia di uscita.
Calcavamo la mano già all’inizio di queste brevi considerazioni sulla credibilità dell’interpretazione di Yelizar Nazarenko proprio perché, in circa un’ora e mezza, è impressionante la gamma emotiva che riesce a dispiegare con la medesima naturalezza, dal disagio silenzioso agli scoppi di rabbia, dalla impaurita aggressività alla regressione animalesca. Roman nel corso del film viene sostanzialmente tartassato da una serie di sfortune che lo portano man mano a scivolare in un suo mondo ferino, involvendosi, perdendo la capacità di comunicare e di rapportarsi con il contesto circostante. Il giovane protagonista subisce un durissimo processo di disumanizzazione che lo trasforma in un essere primitivo, rinchiuso in quella casa-prigione che è al contempo carcere e rifugio da un mondo che lo ripudia e con cui non v’è spazio per comunicare.
Rival è insomma un film di formazione tagliente e atipico, che illustra non tanto il traghettamento di un ragazzo verso l’età adulta quanto il suo lento scivolare nella direzione opposta, in prossimità dell’animalità. Forse un po’ troppo artificioso e compiaciuto in alcuni punti, rimane un esordio che non è errato definire accattivante, in quanto trova nella morbosità abbastanza fascino per giustificare se stesso. E poi un bambino in grado di fornire una prestazione di tale presenza non è cosa che si vede tutti i giorni, vale la pena evidenzialo a costo di apparire ripetitivi pur in poche righe.