48 War Movies – nella prima sala dell’Arsenale – immerge i visitatori della 58° Esposizione Internazionale d’Arte all’interno di “Interesting Times”, l’opera di Christian Marclay è un videocollage che rivela il caotico scenario del mondo contemporaneo. Se anche per quest’anno, come nel 2015, il curatore dell’esposizione ha deciso di parcellizzare le corderie in spazi più ridotti, è sorprendente constatare la qualità delle opere degli artisti disseminati lungo il percorso.
Vale la pena gustarsi con tranquillità le corderie per apprezzare la 58° Biennale d’Arte che, se da principio sembrava suggerire un tema decisamente ampio, a conti fatti riesce a presentare un fil rouge che lega tra loro opere e artisti. “May You Live In Interesting Times” è una narrazione attraverso il nostro travagliato presente rappresentato da conflitti di diverso tipo: di genere, di confine, di credo, di pensiero…
Finalmente una mostra che richiede un impegno da parte del pubblico, ogni opera necessita di un quantitativo di tempo per essere osservata, contestualizzata, pensata e, soprattutto, discussa.
Mentre viene confermata la bellezza dei ritratti della pluriosannata Njideka Akunyili Crosby, sono brividi per l’installazione semplice e diretta di Teresa Margolles (La Búsqueda), drammi che nemmeno le surreali sculture di Jesse Darling riescono a superare. Non mancano le grandi installazioni come Eskalation di Alexandra Bircken, visione di un futuro apocalittico dove l’uomo pende come un fantoccio esangue nel tentativo di completare la sua scalata verso il cielo, o la disturbante casa delle bambole di Kaari Upson, teatro di una performance femminile sullo sdoppiamento di cose e persone (There Is No Such Thing Like Outside). Straordinaria la coinvolgente installazione sonora di Shilpa Gupta: For, in your tongue, I cannot fit. L’opera, che è costituita da una selva di microfoni trasformati in amplificatori e piedistalli acuminati che trafiggono pagine scritte, ha da subito un forte impatto visivo; tuttavia il cuore dell’installazione è il suono: la forza dell’opera sta nel ritmo di voci che dichiarano l’esistenza di un pensiero controcorrente (e per questo perseguitato).
Suono e materia sono elementi rilevanti della trama che si sviluppa in Arsenale: Tarek Atoui dedica un’intera sala alla produzione inusuale di sonorità differenti, intanto Nicole Eisenman lavora con alluminio e acciaio per plasmare i suoi ritratti distorti; mentre Otobong Nkanga fonde una lunga vena in marmo Lasa e vetro di Murano che sembra emergere dalle profondità della terra, le pitture a smalto di Ulrike Müller fanno dolcemente breccia nell’intimità dello spettatore. Azzeccata la scelta del curatore di sparpagliare le espressive sculture della svizzera Carol Bove e le fotografie in bianco e nero di Zanele Muholi nei vari angoli delle corderie, così tra le colonne di mattoni e le opere compaiono profili di lamiera colorata e grandi occhi neri intensi che osservano il visitatore.
Ampia la partecipazione della fotografia, che ci offre molteplici punti di vista sul mondo: dalla vita performativa di Mari Katayama ai notturni degli emarginati di Soham Gupta, dalle scene inventate (forse) di Stan Douglas alle splendide tavole di Rosemarie Trockel.
Davvero intrigante anche la produzione video, in particolare le fantasie evergreen sul futuro che ci attendono nel bosco di monitor di Hito Steyerl o nell’opera dallo stile video gaming di Jon Rafman, irriverenti invece gli sketch decisamente pop interpretati da Alex Da Corte.
Ma non basta, non si può non citare la stanza di lacrime e humour nero di Ed Atkins, la torre utopica di Lee Bul nata dal recupero di materiali di una zona demilitarizzata, i grandiosi pneumatici incatenati di Arthur Jafa, le video interviste dalle zone “bollenti” del pianeta realizzate da Neïl Beloufa… e infine su tutti trionfa l’ottantenne Jimmie Durham capace di fondere oggetti comuni e feticci di antiche civiltà per donare al pubblico uno specchio in cui riflettersi.
Ripercorrendo questo travagliato sentiero si avverte un senso di profonda inquietudine, se non proprio di disagio che accompagna la produzione artistica contemporanea, un sentimento che si riscontra non solo in Biennale ma anche in altre esposizioni – una tra tutte “La Pelle” di Luc Tuymans a Palazzo Grassi. Anche il concetto di bellezza volge rapido, muta in questo mondo folle, ma non si estingue.