La Fondazione Haydn di Trento e Bolzano ha inaugurato la stagione d’opera 2024/2025 lo scorso 9 novembre con Pierrot lunaire di Arnold Schönberg e Gianni Schicchi di Giacomo Puccini. Un dittico sicuramente insolito, dialogo tra culture musicali, ma anche omaggio ai 150 anni dalla nascita del primo e al centenario dalla morte del secondo. L’accostamento è motivato da un evento storico: il 1 aprile 1924 i due compositori si incontrarono a Firenze, proprio in occasione dell’esecuzione del Pierrot lunaire, lasciando ai posteri parole di stima reciproca, seppur Puccini non comprendesse appieno la modernità del maestro viennese.
Pierrot lunaire nasce nel 1912 come ciclo di Lieder per voce e cinque strumentisti, caratterizzato da una declamazione che sfiora il canto (Sprechgesang) e dall’atonalità. Schönberg musica ventuno delle cinquanta poesie dell’omonima raccolta del belga Albert Giraud in cui la maschera è simbolo dell’artista moderno alienato, schiavo di un desiderio che si ribella eternamente contro se stesso, quasi parodia del Tristan wagneriano tra figurazioni ascendenti e discendenti contrapposte.
Gianni Schicchi è invece l’unico prodotto comico partorito da un carattere allergico all’umorismo. Condivide col Falstaff verdiano un baritono protagonista, una coppia soprano-tenore innamorata e una beffa come scioglimento dell’azione. Eppure, non è né una risata al suono di “Tutto nel mondo è burla” (c’è un cadavere in scena, figuriamoci se Puccini poteva rinunciare a qualche dettaglio granguignolesco) né una satira da cui trarre la morale, bensì descrive l’avidità senza scrupoli dei parenti di Buoso, ritratta con humor terreno, secco, tagliente, così com’è la lingua toscana. La musica commenta l’azione in maniera così fluida e veloce che l’orecchio a tratti stenta a seguirla.
La regista Valentina Carrasco prova a trovare dei punti di contatto tra i due titoli e, più che volgersi verso un’ipotetica radice comune quale la commedia dell’arte da cui Pierrot e le varie maschere sotto altro nome di Schicchi, si rifugia nella storia dell’arte. In Pierrot lunaire vediamo lo studio di un artista d’avanguardia (Bruno Taddia) che dipinge sperimentando svariati stili, affiancato dalla cantante-musa. C’è Renoir, Fontana, Schiele, Munch, financo, al termine, una fanciulla robot che potrebbe essere uscita da una tela di Picasso, Léger o Depero. Qui Carrasco prende da ogni testo un elemento o un sentimento particolare e lo trasforma in gesto, concependo una partitura gestuale coerente. Mauro Tinti crea un mare di tele ora coperte e poi scoperte dalla musa, sovrastato da una “kranke Mond“, mentre le luci di Giuseppe di Iorio conferiscono tinte suggestive sfruttando il mood della poesia intonata. Fin qui tutto bene.
L’atto unico pucciniano rimane decisamente irrisolto. Si apre il sipario sui parenti dolenti di Buoso. Dove stanno? In un trittico sacro sullo sfondo di Firenze, abbigliati come santi e Madonne trecentesche dai vivaci manti colorati, sempre opera di Tinti, col cadavere (che a tratti si rianima, ma viene tenuto a bada) novello Cristo deposto. Da qui, una serie di trovate volte a cortocircuitare la vicenda verso una farsa carnascialesca che ridicolizza la musica. Giusto alcune: Simone addirittura Papa e Zita Vergine Madre; Betto di Signa conciato da Sant’Agata, con tanto di minne (dolci tipici siciliani) offerte agli astanti, che civetta col medico; le volontà del defunto quali “Nuovo Testamento”; dal sepolcro, all’uopo anche letto, ricompare la musa nei panni di Beatrice e si scomoda pure Dante che sul finale farà a cazzotti col protagonista; la parlata fiorentina di Gianni nella dettatura del lascito, non prevista e puro vezzo registico; Schicchi che esce dal sepolcro con tanto di bandiera come nell’omonimo soggetto di Piero della Francesca. Anche Gianni è in vesti sacre? No, per Carrasco Schicchi è “artista della truffa, avanguardista in quanto esponente della gente nova”. Ecco il trait d’union: all’ “È lui!” ricompare il pittore di Pierrot lunaire, la cui figlia Lauretta altro non è che il robot di cui sopra, amata da Rinuccio in tunica apostolica. Dopo intere stagioni di sperimentazioni contemporanee “Bolzano laughs!”, ma, francamente, è difficile concedere a Carrasco l’attenuante.
Sul piano musicale, Pierrot Lunaire può contare sui validi solisti dell’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano Marco Mandolini (violino), Gabriele Marangoni (viola), Gianluca Montaruli (violoncello), Nadia Bortolamedi (fiati), Ciro Longobardi (pianoforte), diretti da un’ispirato e preciso Michele Gamba. Non da meno è Ada Caiello, soprano che infonde a Pierrot un’anima combattuta tra disperazione e vendetta. Meno centrata in termini di cura dei tempi e dei ritmi è parsa la direzione di Gamba nel Gianni Schicchi. L’Orchestra Haydn non sembra avere nelle sue corde il linguaggio armonico, asciutto e stridente prescritto da Puccini.
Poco approfondito il ruolo principale da parte di Bruno Taddia, dal timbro poco incisivo per il personaggio, tratteggiato più come caricatura che uomo di genio, più Figaro luciferino che sprezzante borghese. Sara Cortolezzis è Lauretta dalla linea di canto pulita e ampia. “O mio babbino caro”, risolta con graziosa finezza, strappa l’applauso. Zita più matronale che anziana quella di Enkelejda Shkoza. Qualche limite in acuto ce l’ha Antonio Mandrillo, Rinuccio discreto. Menzione d’onore per Mattia Rossi, nel doppio ruolo di Dottor Spinelloccio e Amantio Di Nicolao, dalla voce incisiva, omogenea e ben caratterizzata. Completano il parentado Marcello Nardis (Gherardo), Francesca Maionchi (Nella), Ben Perkmann (Gherardino), Gianni Giuga (Betto di Signa), Renzo Ran (Simone), David Roy (Marco), Sarah Richmond (La Ciesca), Federico Evangelista (Pinellino) e Lorenzo Ziller (Guccio). Nel ruolo di Buoso c’è Iosu Lezameta.
Successo per tutti alla prima del 9 novembre.
Luca Benvenuti
Photo credits: Andrea Macchia