A seguito di una carriera che ha attraversato due secoli, ridefinendo l’iconografia della generazione del Ventennio Perduto (quella affacciatasi all’età adulta dopo lo scoppio della bolla economica del 1990) e della criminalità organizzata nel Paese del Sol Levante, Kitano Takeshi con Broken Rage sembra voler dire addio una volta per tutte alle scene, riassumendo, in una grande parodia di se stesso, i suoi tòpoi narrativi e fisime attoriali. In sala da quasi un mese nel Paese del Sol Levante, dopo il passaggio in FC a Venezia.

Un sicario sul viale del tramonto – Beat Takeshi –, dopo un paio di lavori andati a buon fine, viene incastrato da due detective, che lo costringono ad infiltrarsi in una banda al centro del traffico di droga di Tokyo. Guadagnatosi la fiducia del capo e del suo numero due, riesce a coglierli in flagranza di reato, consentendo l’arresto in massa dei malavitosi. Nella seconda metà del film, vengono riproposti gli stessi eventi, ma questa volta tutto va per il verso storto, con il nostro protagonista vittima di gag a profusione.

Se il jidaigeki Kubi (2023), una sanguinolenta quanto libera reinterpretazione della prima fase della riunificazione nazionale a opera del condottiero Oda Nobunaga (1534-1582), rappresentava la conclusione della carriera di Kitano in quanto autore, rimettendo al centro l’arbitrarietà e l’ipocrisia dei rapporti di vassallaggio feudale – che hanno poi informato i rapporti di affiliazione che, oggi, sono alla base di ogni tipo di organizzazione in Giappone, mafiosa o meno che sia –, Broken Rage è il capitolo finale della sua carriera in quanto Beat Takeshi, ovvero di maschera del manzai, il genere comico botta e risposta – in cui, di due interlocutori, uno cerca di portare avanti un ragionamento logico, mentre l’altro lo demolisce con osservazioni ciniche – che, al fianco di Kiyoshi Kaneko (alias Beat Kiyoshi), gli valse la popolarità di cui gode tutt’ora in patria – dove, a differenza dell’Occidente, la sua carriera da regista di film “impegnati” è pressoché irrilevante.

D’altronde, che Kitano si sentisse più a suo agio nei panni di comico che di cineasta, lo si sapeva già dalla trilogia del suicidio artistico – comprendente Takeshis’ (2005), Glory to the Filmmaker! (2007) e Achille e la Tartaruga (2008) –, il cui scopo era precisamente quello di sancire la morte del proprio corpo autoriale così come definito dai grandi festival internazionali – fu proprio Venezia ad attribuirgli il suo primo riconoscimento, con il Leone d’Oro a Hanabi nel 1997 –, in favore dell’alter ego dissacrante che aveva definito gli inizi della sua carriera, e che lo stesso Kitano ha sempre detto di sentire più affine alla sua persona – non da ultimo, alla luce di una velata xenofobia, per la quale non ha mai dato troppa importanza al favore incontrato all’estero dai suoi film.

In questo senso, Broken Rage costituisce un’ulteriore pietra tombale, ovvero il segnale che anche la maschera da intrattenitore è da considerarsi appesa al chiodo. Ricuperando il ricorso alle gag in costume e il senso dell’umorismo tipico del manzai della sua generazione, i cui giochi di parole – giusto per citarne alcuni, il termine fukumen sōsa (indagine sotto copertura), dove fukumen significa anche “maschera”, da cui la maschera da wrestler che Kitano indossa in certi frangenti; ancora, il termine haku usato nella doppia accezione di “vomitare” (lett.) e “vuotare il sacco”; lo stesso per il termine nezumi, indicante il “topo” ma anche colui che fa la spia sui propri compari – risultano un po’ antiquati per il pubblico giapponese under 30, Kitano ci sta insomma dicendo che anche Beat Takeshi appartiene al passato.

Con una povertà di mezzi – di messa in scena, espressivi, attoriali – che è di fatto la cifra di tutto il film, Broken Rage si configura come uno sconsolato invito al pubblico – nazionale e non – a lasciar calare il sipario, e a guardarsi dal rialzarlo. C’è da dire che, come ultimo atto, un ultimo guizzo di creatività era lecito aspettarselo.