Insignito del Gelso di Cristallo, Canola di Chang – all’anagrafe Hong-Seung Yoon – è una commedia drammatica di ambientazione bucolica che racconta la bellezza degli affetti umani nella loro spontaneità dimostrando una sensibilità pittorica per il paesaggio e la luce.

La vecchia Gye-ChoonYuh-Jung Youn – vive sull’isola di Jeju con la nipotina Hye-Ji, che in un giorno di mercato scompare tra la folla. Dodici anni dopo la ricerca dà i suoi frutti e una ragazza – interpretata da Go-Eun Kim – si fa avanti affermando di essere lei. Gye-Choon la porta subito a Jeju senza nemmeno attendere i risultati del test del DNA, ma in paese è chiaro a tutti che Hye-Ji – se davvero questo è il suo nome – sta nascondendo qualcosa. Per quanto dolorosa, Gye-Choon dovrà affrontare la realtà dei fatti, realizzando però al contempo di aver costruito con la sedicente Hye-Ji un legame ancor più profondo di quello di sangue.

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Con l’avanzamento temporale che segue la sparizione della piccola il film prende una piega simile a Derailed di Seong-Tae Lee, per quanto non altrettanto tragica: Hye-Ji – continueremo a chiamarla così per comodità – vive in un monolocale di periferia alle dipendenze di due coetanei che la costringono ad adescare clienti adulti per poi ricattarli. A fare da contraltare alla città e ai crimini che vi si consumano è Jeju, descritta come un luogo idilliaco dove il progresso sembra non aver intaccato le tradizioni dei suoi abitanti, a cui sono dedicate le sequenze più pittoresche – si pensi alla processione in onore del dio del mare.

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Canola tuttavia si incanta nella contemplazione dei ritmi dell’isola tradendo uno studio sul personaggio sostanzialmente povero: invece di approfondire a dovere il rapporto tra Gye-Choon – nei cui panni Yuh-Jung Youn si mostra all’altezza della sua reputazione – e Hye-Jin si spende fin troppo tempo per caratterizzare quest’ultima, circondandola di personaggi secondari – il professore di arte, il compagno di scuola innamorato – che servono solamente a rinforzare la sua immagine di classica ragazza un po’ ribelle dal potenziale inespresso.

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Così facendo il regista procrastina oltremodo la soluzione dell’intreccio fornendo una spiegazione macchinosa e poco plausibile che riporta la vicenda nell’alveo della favola, a discapito della verisimiglianza che comunque sembrava voler mantenere considerato l’incipit. Al fine di indurre empatia Chang ricorre poi ad alcuni espedienti – uso estensivo del ralenti e frasi a effetto – che, assieme alla affettata scena finale del trapasso di Gye-Choon, costituiscono una reiterazione di convenzioni di genere ormai improponibili.

Canola si configura pertanto come una pellicola melensa che restituisce l’immagine di un’umanità fittizia, capace di far breccia nel cuore degli spettatori più condizionabili ma non allo stesso livello di quei titoli – uno su tutti Close Knit di Naoko Ogigami – che nel corso del Festival  hanno saputo provocare tanto il riso quanto il pianto senza ricorrere ad altrettante esasperazioni.