Della vita e dei crimini commessi da Charles Manson sappiamo praticamente tutto: il suo processo è stato il più grande caso mediatico-giudiziario prima di quello di OJ Simpson, e la sua storia è stata raccontata in più film (e comparirà, non sappiamo con quanta centralità, anche nel nuovo film di Quentin Tarantino).

Molto meno esplorata è invece la storia della Manson Family, e in particolare delle numerose ragazze che entrarono a farne parte e presero parte agli efferati delitti pianificati da Manson. Mary Harron decide di raccontare la loro storia. Lo fa alternando il racconto della loro convivenza con Manson con quello del tempo da loro trascorso in prigione, dove l’incontro con l’antropologa Karlene Faith le aiutò a rendersi conto del lavaggio del cervello subito e ad accettare la gravità dei crimini commessi.

Il mantra “Charlie says”, “Charlie dice”, ripetuto ossessivamente dalle ragazze nel corso del film, scandisce come una colonna sonora quello che è a tutti gli effetti una caduta agli inferi che viene mascherata da viaggio iniziatico. Alla catabasi farà seguito un lento e graduale percorso di redenzione, segnato dalla progressiva sparizione del mantra e dalla riappropriazione del proprio ego da parte delle ragazze – quell’ego che Manson aveva ordinato loro di distruggere.

L’adozione della prospettiva delle ragazze permette al film di raccontare in modo efficace un lato diverso di Manson: non quello del serial killer, ma quello dell’affabulatore, del profeta, del guru new age, dotato di un fascino luciferino ma irresistibile, capace di incantare anche Danny Wilson, batterista dei Beach Boys, che includeranno un brano scritto da Manson in un loro album.

Laddove nel finale emerge appieno la crudeltà e la totale follia di Manson, nella prima parte del film il suo personaggio non ha nulla di diverso da un qualunque figlio dei fiori, intento a predicare la ribellione all’ordine precostituito e il libero amore. Henron, con l’aiuto fondamentale della sua storica sceneggiatrice Guinevere Turner, racconta alla perfezione l’evoluzione di Manson, o meglio il suo graduale gettare la maschera dell’affabile hippie per assumere quella del pazzoide megalomane, in grado però di controllare le fragili menti di chi gli sta attorno.

L’impianto femminista del film è evidente, ma non condiziona più di troppo la narrazione, anche se sarebbe stato senza dubbio interessante approfondire maggiormente anche la psicologia dei membri maschili della Family, e in particolare di quel Tex Watson che fu l’esecutore materiale di molti degli omicidi.

Il film ha un impianto classico e fortemente narrativo, ma non rinuncia al simbolismo delle immagini per raccontare la storia. Gli interni del ranch dove vive la Manson Family virano sempre al rosso, quasi a sottolineare il male che si annida all’interno della loro apparenza domestica e bucolica. Le scene in prigione sono invece ritratte con una luce fredda, sui toni di blu, e rendono le celle uno spazio neutro, inviolato, un luogo sia fisico che mentale, fiprotetto dalle influenze esterne e dove le ragazze possono ritrovare se stesse.

Charlie Says non brilla per originalità della costruzione filmica, ma costituisce un solido racconto sulla banalità del male e sulle complesse dinamiche tra questioni di genere e potere, e sulla sottile linea che separa la fascinazione e il consenso dall’influenza indebita e dall’abuso. Una storia di ieri per parlare dell’oggi, dunque, e di un fenomeno complesso che non nasce oggi, ma ha radici antiche, e ha avuto e può avere ancora manifestazioni persino più terribili di quelle che ci raccontano i recenti fatti di cronaca.