“Citizen Rosi” di Didi Gnocchi, Carolina Rosi

Citizen Rosi riprende il titolo dato alla retrospettiva del regista organizzata a New York, ed è lui stesso a dirci quanto questa locuzione gli garbasse. Definirlo “cittadino” era la miglior qualifica che potesse ricevere, e un titolo di cui fregiarsi perché essere cittadino nella sua piena accezione comporta diritti e doveri, questi ultimi ben chiari a Rosi, come è evidente dal suo corpus di opere.
Il documentario è narrato dalla voce pacata e affettuosa di Carolina Rosi, figlia e assistente di regia nonché ideatrice di un documentario che non è mai stato portato a compimento ma i cui spezzoni e le cui interviste sono state ampiamente riutilizzate nel confezionare questo lavoro. In realtà parlare di documentario su Francesco Rosi – o Franco, come lo chiama Carolina – è fuorviante: questo è un documentario sulla storia della democrazia italiana, dalle sue origini nel dopoguerra ai giorni nostri, ripercorsa seguendo cronologicamente i film del regista, non in base all’anno in cui sono stati realizzati ma secondo l’anno in cui sono avvenuti i fatti che raccontano.
Agli spezzoni dei film si intervallano dunque vecchie interviste con il regista che ripercorre i metodi di indagine utilizzati per ottenere tutti i dati e le riprese necessarie, e interviste a registi, giornalisti, professori e magistrati che attualizzano l’opera di Rosi, ripercorrendo le vicende giudiziarie che hanno anticipato o concluso i fatti da lui narrati, e il contesto storico-politico in cui questi sono avvenuti. Il livello di indagine e meticolosità da parte del regista lascia intravedere un’anima quasi documentaristica all’opera, ma certo non era questo Rosi, che sviscerava sì i fatti, ma senza mai perdere di vista il lato umano delle storie: la sua non era narrazione sterile e fine a se stessa ma sempre indirizzata a un miglioramento dello status quo perché il cinema, per lui, era uno dei modi di portare avanti il cambiamento sociale.
I suoi film sono stati di denuncia, e spesso invisi al potere; Chiarini stesso nel 1962 rifiuterà la partecipazione alla Mostra di Venezia a Salvatore Giuliano, pretestuosamente bollandolo come documentario e quindi impossibilitato a concorrere assieme alle opere di fiction. Questi film, in cui lui proponeva allo spettatore non una visione definitiva dei fatti, ma degli elementi che dessero al pubblico la possibilità di giungere alle stesse conclusioni cui lui era giunto, conclusioni che spesso differivano dalla versione “ufficiale”, vengono inoltre riletti alla luce degli sviluppi giudiziari avvenuti decenni dopo, come è ad esempio per Il caso Mattei, dove a fare da contraltare al film del 1972 risponde il magistrato Vincenzo Calia, che fece riaprire il caso alla procura di Pavia negli anni ’90 arrivando a dimostrare la morte dell’industriale per attentato, e non per incidente, come invece all’epoca era stata definita.
Nei suoi film, Rosi disvela così per primo i retroscena e gli accordi abominevoli che sin dal 1946 – a partire da Lucky Luciano (1973) e il suo rientro in Italia a opera degli Stati Uniti – hanno legato Stato, mafia e servizi segreti deviati, come fu il primo a proporre apertamente l’idea di “trattativa”, molto prima che qualunque sentenza giuridica arrivasse a comprovarla ufficialmente.
Queste due ore di documentario sono uno spezzone della storia del nostro Paese, la storia più sporca e più cupa, quella che non viene raccontata e si è sempre cercato di occultare, ma le parole, e i film, di Rosi, non sono pervasi di pessimismo, come sarebbe lecito aspettarsi; il motto che ripeteva sempre era “andiamo avanti”, un intercalare, certo, ma anche uno stile di vita e un modo di guardare il mondo, andando avanti, nonostante tutto.
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