Vincitore del Leone d’Argento a Venezia77 con il polpettone sciovinista Spy no tsuma (2020), Kurosawa Kiyoshi presenta Fuori Concorso Cloud, progetto di lunga gestazione che, benché scevro dalle poco desiderabili contaminazioni con la serialità televisiva che negli ultimi anni avevano inficiato le sue produzioni di più ampio respiro, abbandona anzitempo una certosina costruzione della tensione in favore di uno sviluppo action dove a dominare la scena sono i colpi di pistola.

Nonostante le prospettive di promozione, l’operaio Ryōsuke Suda Masaki, qui alla prima collaborazione con Kurosawa – decide di licenziarsi e dedicarsi a tempo pieno alla sua attività di truffe sui siti d’aste online – dove è noto col nome utente di Ratel. Trasferitosi fuori Tokyo con la fidanzata AkikoFurukawa Kotone, stella del cinema commerciale ma comparsa in un ruolo minore anche in Gūzen to sōzō di Hamaguchi Ryūsuke –, assume persino un aiutante per farsi dare una mano nella sua “impresa”, ignorando però che i nemici di Ratel, organizzatisi su un web forum, sono pericolosamente vicini a scoprire la sua vera identità. E purtroppo per Ryōsuke, nessuno di loro è intenzionato a passare per un’aula di tribunale per farsi giustizia.

Anno a dir poco prolifico per Kurosawa, il 2024 ha già visto l’uscita in sala de Le chemin du serpent, remake in terra d’Oltralpe del suo film omonimo del 1999 – la cui opportunità è perlomeno discutibile –, e di Chime, un mediometraggio che ha fatto la felicità dei cultori del regista, riportandoli in appena 45 minuti agli incubi urbani di Cure (1997) e Kōrei (2000) – non da ultimo, grazie alla straordinaria performance di Yoshioka Mutsuo –, rispetto ai quali Cloud fa segnalare, se non un calo di stile, senz’altro una parziale deviazione dai consueti tropi narrativi.

I temi, al contrario, sono ancora una volta quelli che hanno fatto la fortuna del regista. Scegliendo come punto di partenza l’angoscia per le possibilità mostruose dischiuse dalla rete, al centro di Kairo (2001), Kurosawa non la declina qui in chiave paranormale, bensì sociale, nella fattispecie della triade provincia- truffe-aggressioni che rappresenta la sintesi delle paure più recondite del cittadino giapponese medio.

In primo luogo, Ryōsuke si trasferisce per l’appunto nella prefettura di Gunma – come si evince dalle targhe d’auto e dall’uniforme delle forze dell’ordine locali – che, assieme a quelle di Chiba e Saitama, costituiscono oggi poco più che satelliti dell’amministrazione autonoma di Tokyo, allontanandosi dalla quale si incorre in un’implicita degradazione sociale, nella rinuncia a voler competere per diventare una persona di successo (kachigumi) e accettare di conseguenza lo status di perdente (makegumi). A sua volta, la fobia per truffe e aggressioni si ricollega al fatto che esse costituiscono la lampante violazione del patto sociale per il quale al rispetto delle regole corrisponde la tutela della proprietà e della persona fisica: regole che, nella società giapponese, sono in larga misura non scritte e richiedono un’autodisciplina non indifferente – da ciò, si evince anche perché l’opinione pubblica nipponica sia particolarmente intransigente verso chi commette questo tipo di reati.

Ciò detto, Cloud è piuttosto sbrigativo nell’affrontare detta componente socio-psicologica. Come segnalato anche dal cambio di passo nell’utilizzo della macchina da presa, che dalla valorizzazione del fuoricampo e dei giochi di specchi passa a campi larghi dall’alto – quasi si stesse documentando un’azione di guerra –, e della fotografia, senza più variazioni chiaroscurali sul corpo attoriale di Suda Masaki/Ryōsuke, la seconda metà del film, in cui i nemici di Ratel si fanno vivi, è un unico, adrenalinico inseguimento tra predatori e preda che, prevedibilmente, finisce per ribaltarsi – in cui si intravvede l’influenza del manga Prophecy (2011-2013) di Tsutsui Tetsuya, anch’esso incentrato sul fenomeno dei forum estremisti e iconograficamente richiamato dal personaggio dell’aggressore munito di maschera di carta di giornale.

Gradita sorpresa resta comunque l’utilizzo estensivo delle armi da fuoco, impreziosito da effetti visivi e sonori affatto realistici, e sempre più raro in un panorama estremorientale dove, a parte qualche regista della vecchia guardia – Miike, Kitano… – o la riesumazione di franchise defunti da tempo – si pensi al sequel Kaettekita abunai keiji uscito quest’anno, tutt’altro che atteso –, le sparatorie sono sempre più diventate prerogativa dei film di mafia cinesi o coreani.

Peccato solo che, per giustificarne l’uso, Kurosawa si sia trovato costretto ad aprire un grave buco di trama, nella specie del personaggio dell’assistente di Ryōsuke che, non si capisce su quali basi, si scopre essere un killer professionista in grado di procurarsi pistole e munizioni alla fermata del treno.

Slabbrato nel suo tirare le fila della vicenda, con Akiko arrivata di punto in bianco a puntare la pistola sul compagno in cambio di una carta di credito, e Ryōsuke costretto a unirsi a una non meglio precisata organizzazione criminale in cambio della vita, è lecito riconoscere in Cloud il meno riuscito dei tre esperimenti di quest’anno di Kurosawa, il quale, anziché fare affidamento sul potere taumaturgico della location francese, del cambio di genere, o del cast stellare – uno degli scopi dichiarati del film era appunto quello di far leva sulla popolarità di Suda Masaki nella speranza di una risonanza internazionale –, dovrebbe ormai sapere di non essere secondo a nessuno quando si tratta di raccontare storie di ordinaria follia – il suddetto Chime ne è un ottimo esempio.