“Cure” di Kiyoshi Kurosawa, per la prima volta nelle sale italiane

A quasi trent’anni dalla sua uscita, Cure, di Kiyoshi Kurosawa, arriva per la prima volta nelle sale italiane, distribuito da Double Line in versione restaurata 4K.

Il thriller – ambientato a Tokyo nel 1997 – vede protagonista il detective Takabe, impegnato a trovare il filo conduttore tra diversi omicidi che si svolgono in serie, per mano di persone comuni che, colte come da un raptus la cui causa rimane ignota, uccidono e subito dopo vessano il cadavere delle vittime incidendo una X sul collo. Insieme allo psichiatra Sakuma, Takabe cerca l’elemento chiave di queste morti, arrivando ad un’inquietante scoperta: la presenza di un uomo, dapprima dall’identità ignota, che gira per la città privo dei memoria. Il sospetto è che sia proprio lui ad istigare ai delitti. Parallelamente il poliziotto vive una complessa situazione familiare a causa della malattia mentale che affligge la moglie: ciò, unitamente alle indagini sempre più aggrovigliate, lo porterà ad un coinvolgimento emotivo estremo.

La pellicola di Kurosawa sembra non essere invecchiata d’un giorno: coinvolge lo spettatore – come ipnotizzato, e questo non è certamente casuale, vista la trama – portandolo fin dai primi minuti in una dimensione di tensione continua, dapprima sottile, poi sempre più potente, in un lungo crescendo. Al pari dei grandi capolavori di genere, persino una volta fuori dalla sala, alcuni fotogrammi del film, la sua atmosfera generale e questo senso di sconforto, resistono nel pubblico.

Un anno dopo la prima uscita del film arrivò al cinema quello che è probabilmente l’horror giapponese più celebre di sempre, Ring (1998) di Hideo Nakata: Cure è stato spesso legato a questo filone, seppur non del tutto ascrivibile unicamente al genere dell’orrore. Gli elementi in comune tra le due opere sono numerosi, ma quello forse più interessante – perché in grado di generare una riflessione sul potere dell’(audio)visivo – è senza dubbio la presenza degli schermi: da una parte una vhs maledetta, dall’altro una pellicola di fine Ottocento (riversata sempre su vhs).

E poi i fantasmi, gli spettri, la vendetta e, in Cure, il male come entità priva di spiegazioni possibili, qualcosa di inevitabile: è in questo aspetto che si annida la causa della paura e che rende la pellicola così coinvolgente. 

Tutto è amplificato dalla fotografia e, soprattutto dal montaggio, che grazie a incisivi piani sequenza ed ellissi mette in luce la dimensione psicologica; l’aspetto sonoro non è da meno, e i rumori di fondo che spesso arricchiscono le sequenze, rendono disturbante la visione. Kōji Yakusho, che veste i panni di Takabe, incarna perfettamente tutta la vasta gamma di emozioni messe in scena, rimanendo sempre credibile e conservando l’eleganza che mostrerà in tutti i successivi film in cui ha preso parte, come Perfect Days di Wim Wenders (2024), che gli è valso il premio come miglior attore al Festival di Cannes. 

Cure è un film da scoprire o rivedere, che nel buio della sala esprime al meglio le sue potenzialità, un’opera che spinge a riflettere sulla natura umana e sulla potenza del vedere.