Primo film laotiano a entrare a far parte della selezione ufficiale del FEFF e decimo della storia del cinema del suo paese d’origine, Dearest Sister di Mattie Do è un horror familiare che mescola il paranormale alla paranoia senza tuttavia svilupparsi in senso prettamente orrorifico.
Nok – Amphaiphun Phommapunya – abbandona il suo villaggio per offrire assistenza alla sorella Ana – Vilouna Phetmany –, che a causa di una malattia degenerativa sta perdendo la vista. Ma superstizione vuole che, quando si perde un senso, se ne acquisti un altro: Ana ha infatti acquisito la capacità di prevedere chi dovrà recarsi all’altro mondo attraverso degli stati di trance. Durante queste “crisi”, Ana pronuncia sequenze di numeri che Nok scopre essere le combinazioni vincenti della lotteria. Avendo sfruttato la sorella a fini di lucro e ignorato il pericolo costituito da due domestici profittatori, Nok si vedrà alfine punita per il suo egoismo.
Frutto di una coproduzione tra Francia, Laos ed Estonia, Dearest Sister è il secondo lungometraggio dell’unica regista donna in terra laotiana, già autrice nel 2012 di Chanthaly. Rispetto al titolo precedente è evidente la disponibilità di un budget più cospicuo, che ha permesso di evitare il product placement invasivo e garantito al contempo maggiore libertà di espressione.
A ogni modo, nonostante il superamento di tali limitazioni, Do sembra ricadere nei medesimi errori dell’opera prima. Gli elementi per alimentare il terrore nello spettatore ci sono tutti: uno strano potere oculare che s’accompagna alla cecità – che ricorda quello della protagonista di The Eye (2002) –, una servitù che mal sopporta l’obbedienza, una casa confortevole ma isolata e così via. Dopo aver gettato queste premesse narrative e una partenza in quarta però il film prende tutta un’altra strada, dilungandosi a descrivere – e questo per ben tre volte – come Nok spenda i soldi vinti di volta in volta al lotto, oppure dedicando particolare attenzione al rapporto coniugale di Ana e suo marito Jacob, incrinato dalle difficoltà economiche di lui e dai problemi di salute di lei. Per gran parte della sua durata quindi Dearest Sister allenta completamente la tensione, come se dall’horror si passasse al dramma familiare, anche se nel finale vi sarà un crescendo che porterà a convergere in un stesso luogo tutti gli spunti inquietanti relegati in secondo piano.
Viceversa il comparto tecnico denota il raggiungimento di una certa maturità autoriale: senza ricorrere a strabilianti effetti speciali – giusto un tocco di computer grafica per le anime dei defunti –, nei momenti di contatto con l’aldilà lo sguardo del fruitore coincide con quello di Ana, grazie a soggettive caratterizzate dall’effetto fou e da angolazioni insolite che amplificano il senso di smarrimento.
Una delle possibili chiavi di lettura che giustifichi lo spazio dedicato alla descrizione della vita godereccia di Nok è quella che vedrebbe quest’ultima come incarnazione di una gioventù allo sbando, che rinnega le tradizioni della comunità rurale di appartenenza e non ha altro fine che il conseguimento del piacere immediato.
Dearest Sister è insomma un film dell’orrore più di nome che di fatto, per quanto le doti della regista siano evidenti. Chissà che cimentandosi in un altro genere Mattie Do non sia presto in grado di esprimere il suo pieno potenziale.