Le dinamiche della presentazione di Dissolve, esposto alla Marché du Film di Cannes, la sorella minore e industriale della più nota kermesse cinematografica al mondo, a circa due mesi di distanza dallo spegnimento dei riflettori sul tappeto rosso e la consegna della palma d’oro, è tristemente diventata perfetta immagine del suo regista in questi ultimi anni, dimenticato e relegato ai margini. Diciamo che dopo il sorprendente gioiellino One on one, che faceva seguito al particolare ma non indispensabile Moebius e al fondamentale Pietà, trittico girato in due anni e mezzo successivamente all’esperienza di metabolizzazione dell’incidente occorso durante Dream (consistente nel dittico formato Arirang e Amen), Kim Ki-duk sembrava aver dimostrato di essersi ripreso dall’esperienza traumatica del 2007 che, a detta sua, ebbe impatto persino sul suo modo di fare cinema; ma da lì è stato un netto percorso in discesa, sia dal punto di vista cinematografico sia da quello della salute, fisica e mentale, del regista, che si è concluso definitivamente nel 2020 con il Covid-19 a dare il colpo di grazia a una persona purtroppo già molto provata.
L’ultimo lustro della carriera dell’ormai defunto maestro coreano è stato caratterizzato dallo smarrimento di quella incisività che ne ha connotato lo stile per vent’anni e lo ha reso noto a livello internazionale. Un deciso passo indietro dopo l’altro. Kim sembrava necessitare di comprendere se stesso come autore nemmeno fosse un regista a inizio carriera, e non uno stimato ed esperto cineasta come invece era, e tutto ciò ci ha lasciato interdetti già con Human, space, time, and human. All’improvviso non abbiamo più un cinema fatto di schiaffi emotivi, di provocazioni poco appariscenti e al contempo estremamente penetranti, ma di generiche ripetizioni di meccanismi collaudati (The net), pacchetti precotti e riscaldati all’occorrenza per confermare cose che lo spettatore ha già capito, e non per colpirlo. Cosa che tra l’altro Kim ha sempre fatto benissimo, avendo orientato la sua arte a turbare piuttosto che a rassicurare. E Dissolve è il giusto punto d’arrivo di questo percorso, un La samaritana versione bignami girato in Kazakistan con budget risicato, attori del posto e con poca esperienza, con mezzi tecnici ampiamente al di sotto degli standard.
I personaggi non hanno nomi veri e propri, la situazione storico-sociale rimane indefinita, spazio e tempo non pervenuti, e tuttavia il contesto è localizzato e materiale, niente affatto sovrasensibile e allegorico come pochi anni prima. Ragazza-1 e Ragazza-2 (più o meno sic) sono uguali nell’aspetto ma lontane anni luce per quanto riguarda carattere e situazione: Ragazza-1 è praticamente confinata in casa, sottomessa, frustrata, maltrattata dalla famiglia (specie dal fratello), Ragazza-2, cinica ed edonista, vive una vita sfrenata e senza alcun tipo di freno inibitore, facendosi mantenere da uno sugar daddy, le due si scambieranno di posto aiutandosi l’una con l’altra. KKD ritorna a surfare sul tema del doppio ma questa volta ne cava fuori molto poco, alla fine non abbiamo a che fare con nulla di più di una storia di emancipazione piuttosto banale che, se proviamo a immaginare senza il nome Kim Ki-duk alla voce “regia e sceneggiatura” dei titoli di coda, probabilmente non avremo nemmeno omaggiato di attenzione.
Leviamo subito il dente: il livello tecnico è troppo basso. L’intera narrazione sviluppata in tre ambienti come una serie tv anni ’00, una camera a mano strettamente funzionalistica, un ossessione della mdp per il volto delle protagoniste che tradisce lo scarsissimo dinamismo delle varie sequenze, una direzione degli attori “borisiana”, un montaggio che si limita a giustapporre i vari segmenti mascherando, con una moltitudine inverosimile di stacchi spaziali e temporali, l’assoluta inconsistenza di una trama che è composta da vari spezzoni isolati con lo stagno l’uno rispetto all’altro: questi sono tutti elementi che rendono difficoltosa la visione di un film carico di significato per il momento in cui si rende disponibile (in Italia è ancora inedito), e che mette quasi tristezza quando realizziamo che si tratta del canto del cigno di uno dei più importanti registi asiatici di questo secolo.
Stiamo parlando di una riproposizione ruffiana delle tematiche relative al dolore trattate dal nostro nella fase centrale della carriera, ma qui cerca invano di giungere a una catarsi: la sofferenza nei suoi film era aspra e violenta ma si perdeva in un sussurro, ora è urlata, manifesta. Una catarsi di plastica. Ci si rende conto subito che il rumore serve a nascondere una sostanza che non c’é; in passato Kim poteva velare gli oggetti della sua ricerca filmica, e facendolo li rendeva ancora più affascinanti, con questa ultima opera dimostra mancanza di verve, incapacità di rinnovarsi e di uscire dalla spirale artisticamente buia, articolata in quattro film obbiettivamente deboli e molto distanti dal livello eccelso tenuto per vent’anni di vita e carriera. Più che parlare di Dissolve – nel merito del quale di fatto non siamo nemmeno entrati perché l’interesse a farlo scarseggia – ci limitiamo soltanto a due appunti: il primo riguarda il fatto che l’ultimo quartetto di film è accomunato dai medesimi problemi e dalle stesse condizioni strutturali nella sceneggiatura (specie la riesposizione di motivi dal passato), quindi la discussione su uno dei quattro può essere estesa agli altri, come un triste stock di prodotti; il secondo concerne il dispiacere per una figura seminale del cinema contemporaneo che lascia un ultimo ricordo di sé rovinato dall’involuzione post-2014 e dalle recenti accuse alla sua persona. Dissolve, più che essere un brutto film, anche per motivi parzialmente extra-cinematografici, è un film sgradevole per l’intima sensazione di mortificazione che lascia addosso.