Dita e Toni sono due amici dall’orientamento sessuale fluido che si ritrovano a vivere sotto lo stesso tetto con i rispettivi partner e con altre persone provenienti da diverse regioni della sfaccettata e plurilinguistica Macedonia del Nord. Quando la sua ragazza muore di tumore, Dita dovrà occuparsi delle due figlie di origine rom di quest’ultima, con tutte le difficoltà dovute sia all’impostazione tutt’altro che tradizionale della famiglia di elezione che condivide lo stesso appartamento, sia alla Babele di lingue e culture che porta con sé…

Lavori di casa per principianti può definirsi a tutti gli effetti un film ‘balcanico’ vista la moltitudine di paesi dell’Europa sud-orientale coinvolti nella produzione (Macedonia del Nord, Croazia, Serbia, Kosovo – oltre a Polonia e persino Svezia e Australia, dove il regista ha lavorato in passato). Ma non facciamoci ingannare dalla travolgente musica zingaresca che rimbomba a tutto volume dentro e fuori dalla variopinta dimora in cui si dimenano danzando o si muovono nervosamente i non meno variopinti personaggi del film, sempre seguiti da vicino con macchina da presa a spalla e illuminati da luci quanto mai naturalistiche. Goran Stolevski, con all’attivo una lunga serie di cortometraggi e due lungometraggi realizzati all’estero, torna nella sua terra natale, la Macedonia del Nord, grazie a un progetto finanziato a suo tempo dal veneziano Biennale College, e lo fa per raccontarci una storia umanissima e programmaticamente distante dai vari cliché sulla folle sregolatezza infuriante al di là dell’Adriatico cui ci hanno spesso abituati i film girati alle latitudini di Belgrado e Sarajevo, Pristina e Skopje. Lavori di casa per principianti, nonostante l’apparente stravaganza del suo ensemble corale di protagonisti, si lascia alle spalle anche le situazioni surreali e stralunate dei film di Teona Strugar Mitevska, forse la regista che negli ultimi anni più ha contribuito a portare alla ribalta la cinematografia del giovane paese balcanico.

L’obiettivo di Stolevski e della sua affiatatissima troupe di attori è infatti quello di narrare la quotidianità di una famiglia queer – più o meno lo stesso genere di famiglia queer su cui tanto ha scritto Michela Murgia – che può apparire bizzarra solo a un occhio costretto in una visione del mondo ancora legata a un focolare domestico nucleare e omogeneo basato sui legami di sangue. In realtà, pur contrastando con gli arredi demodé, degni di una vecchia casa dei nonni, dell’appartamento che condividono, Dita, Toni e gli altri inquilini vogliono solo vivere una vita normale e dignitosa in cui venga riconosciuto il loro desiderio di stare insieme, anche se alla difficoltà a gestire i rapporti patchwork tra figli naturali e figli acquisiti, mariti sposati per ottenere determinate garanzie burocratiche e amanti trovati sui social si assommano anche, come se non bastasse, i conflitti latenti dovuti all’appartenenza etnica e linguistica.

D’altronde, la delicata problematica della convivenza pacifica nell’ex-Jugoslavia purtroppo non ha mai perso di attualità, e al di là delle sue dimensioni relativamente ridotte la Macedonia del Nord è un mosaico composto da comunità macedoni (dunque parlanti una lingua slava), kosovare (dunque madrelingua albanesi) e rom (dove si parla sia romanì che rumeno). In particolare, e di questo probabilmente molti spettatori (incluso chi scrive) non erano al corrente prima di vedere il film, c’è una profonda spaccatura tra buona parte della capitale Skopje e la municipalità di Šuto Orizari, in gergo Shutka, l’unica d’Europa governata dai rom. Negli anni si è venuto a creare (e lo vediamo sin dalle prime scene del film, con l’atteggiamento razzista del medico e quello aggressivo della ragazza di Dita) un ottuso manicheismo che oppone i ‘bianchi’ (gli slavi) e i ‘neri’ (i rom), sullo sfondo di un’Europa recepita come entità lontana e assente che, come che sia, sosterrà sempre ‘quelli sbagliati’.

I conflitti che talvolta si rivelano dunque aspri nello spazio sia privato che pubblico sono inevitabili, e richiedono un faticoso apprendistato a cui i ‘principianti’ della nostra famiglia queer, multietnica e plurilinguistica si prestano, tra frustrazioni e successi. E i loro interpreti compiono un percorso analogo insieme a loro: il regista ha scelto infatti di mettere insieme sul set attori che parlavano effettivamente lingue diverse e provenivano da background diversi (rom compresi) e ha puntato molto sull’improvvisazione, in primo luogo nelle scene incentrate sulla giovanissima e scatenata Mia, in modo da creare un’atmosfera di disordinata ma pulsante spontaneità, con uno stile verité capace di far entrare letteralmente il pubblico nei panni dei componenti di una comune abitativa che pian piano trova un suo costruttivo modus vivendi e che, forse, può fungere da modello anche al di fuori delle mura di casa, a cominciare dalla Macedonia del Nord e arrivando oltre.