Penultimo film della SIC 2017 della 74° Mostra del Cinema di Venezia e ultimo nella sezione del concorso della stessa, Drift è il primo lungometraggio della giovanissima Helena Wittmann, di cui oltre che regista e sceneggiatrice è direttrice della fotografia e montatrice.

Due donne trascorrono un week-end in Scandinavia, ma mentre una, vinta dalla nostalgia, ritorna a casa dalla famiglia in Argentina abbastanza presto, l’altra con una barca a vela sfida l’immenso attraversando l’Atlantico. Il mare diventa quindi una forza occulta che offre un viaggio mistico alla protagonista, con strani esiti al suo ritorno.

Si tratta quindi di un’opera evocativa che parla di cambiamento e di svolte, il Drift di Wittmann. Essenzialmente di natura contemplativa, Drift ha una prima metà più narrativa, dove si consuma la separazione tra le due amiche frutto di scelte differenti, mentre la seconda è interamente dedicata al viaggio, e quindi stiamo parlando di lunghe riprese a camera fissa del mare. Tant’è che Wittmann nei primi trenta minuti del suo esordio alla regia di un lungometraggio non muove la sua mdp, mai. Riprende le due protagoniste con calma, una lentezza che non lascia adito a fraintendimenti, con la volontà di voler comunicare quanto più possibile a partire soltanto dalle sagome, dalla figura dei due corpi. La regia della nostra è simbolista in queste prime fasi, tanto da voler mettere i corpi uno contro l’altro in ogni occasione, nelle conversazioni  e nelle pose plastiche, persino giocando con la luce. La luce è uno degli elementi cardinali dell’opera in quanto Wittmann affida a essa il ruolo della silente rappresentazione della routine castrante. Stesse azioni, stessi suoni , con l’immutabile alternanza tra giorno e notte a parlare della vita come ciclo: nel film si passa da illuminazioni ipertrofiche e sfolgoranti in ambienti bianchi a panorami notturni in cui a fatica si scorge l’immagine, infatti.

L’unico discorso (tra le peraltro pochissime sequenze verbali) significativo è quello iniziale su Cipactli, che testimonia la chimera che l’eroe, in questo caso incarnata dalla protagonista, deve sconfiggere per ottenere il vero cambiamento e non solo il consueto mescolarsi imperituro di acqua e fango. La seconda parte però, nonostante sia quella su cui si dovrebbe reggere tutto il film a livello intellettualie, manca della capacità espressiva attesa e proclamata con le fanfare nelle prima parte (comunque troppo sgraziata nelle sue esplicazioni). Il finale enigmatico, a proposito del realizzarsi del cambiamento o meno, è infatti preceduto da una serie di long take che riprendono con camera fissa e barca a vela in movimento continuo e instabile, le onde, il riflusso, la corrente. Senza abbandonare in consueti giochi di luce Wittmann cerca di trsportarci in una dimensione sognante che però risulta oltremodo provinciale: filmare le rifrazioni della luce sulla superficie dell’acqua, insistere così tanto sull’immensità non rivela tanto un’abbraccio vitalistico dell’ignoto quanto un recondito desiderio di un’evesione qualunquista e figlia di un pensiero debole.

In conclusione, Drift è un’opera prima dagli obiettivi pretenziosissimi che magari riesce a incuriosire con la prima parte, sì sgraziata ma comunque sia molto solida e tecnicamente curatissima, ma nel momento della verità rivela troppo poco rispetto a quanto aspettato, di fatto rifugiandosi in un luogo comune. Troppo esitante nel volersi spingere più là, e quindi segretamente borghese (quasi Wittmann avesse paura di non far capire abbastanza che il suo film era “autoriale”), e allo stesso tempo non abbastanza kitsch (nel senso buono del termine)per considerarsi video-arte, Drift rimane un film dimenticabile, non riuscendo a regalare nemmeno l’esperienza visiva, e si salva parzialmente solo grazie al finale a quel punto dell’opera pronosticabile ma raffinato quanto basta, capace di lasciare perdere la prassi del cambiamento e interrogarsi per un momento sulla sua natura ambivalente e promiscuamente vitale.