Approfittiamo della compresenza di due film di qualità di giovani autori cechi nella competizione principale del festival di Karlovy Vary per parlarne in un unico testo, dando anche uno sguardo a come essi si collocano nel cinema del Paese.

È normale che i rappresentanti della filmografia nazionale siano sempre un po’ “coccolati” dai selezionatori dei vari festival (tanto per fare esempi lampanti, Cannes e Venezia non fanno certo eccezione), per cui anche a Karlovy Vary abbiano negli anni osservato la tendenza a veder rappresentato il cinema di casa con due o anche tre opere nella sezione competitiva principale. Non fa eccezione la 58esima edizione, e ci vogliamo chiedere se i film in questione siano in concorso meritoriamente o solo per campanilismo…

Oltre ad una ulteriore coproduzione ceco-slovacca, nella dozzina di film che ambiscono al Globo di Cristallo troviamo quest’anno la commedia rurale e chiaroscurale “Our Lovely Pig Slaughter” di Adam Martinec, e una sorta di anti-fiaba familiare dai toni illusoriamente pastello, girata da Beata Parkanova: “Tiny Lights”. Cominciamo subito col dire che a nostro avviso sono entrambi lavori più che decenti, che testimoniano di alcune interessanti tendenze del cinema ceco contemporaneo, e che non gridano certo allo scandalo per l’essere stati selezionati in concorso.

Il primo racchiude la narrazione di una giornata passata in campagna da un gruppo di familiari ed amici, impegnati nella maialatura, evento rituale-contadino che ovviamente molte regioni italiane condividono con la Cechia, per i suoi valori di festa, riaffermazione (che ci piaccia o meno) del potere dell’uomo sulla natura e sugli animali, nonché a volte rito di passaggio che “sdogana” la violenza agli occhi dei membri più piccoli della famiglia. Adam Martinec è un regista poco più che trentenne che viene da una cittadina situate nell’est della Repubblica Ceca, e che qui esordisce con il suo primo lungometraggio dopo aver girato una serie di corti. La sua sceneggiatura è piuttosto compatta: egli riunisce i vettori di una serie di possibili scontri e scintille relazionali in un microcosmo, quello della casetta di campagna designata per l’uccisione del maiale di turno, e li fa esplodere al momento giusto, accumulando e portando a turno a maturazione una serie di motivi di contrasto: c’è la famiglia in crisi fisico-sentimentale, diversi anziani e capi-famiglia che sentono ormai di aver poco altro da dire alla vita e ai propri cari, ma sono inevitabilmente attaccati al proprio ruolo patriarcale, dei vicini rognosi che rovinano il potenziale idillio campagnolo, ma anche il problema dell’educazione dei bambini e l’indecisione riguardo al momento in cui definirli adulti e inserirli almeno in parte nel gruppo dei grandi. I grandi, appunto: bevono, buffoneggiano, ricordano eventi passati, altri maiali uccisi in allegria, pregustano le salsicce con il sangue ancora caldo, litigano non appena anche la minima cosa va storta. Insomma, sono esseri animali umani che affermano il proprio predominio da maschi alfa rispetto alle donne di casa e soprattutto rispetto agli “animali non umani”. Ricordo ancora come si ammazzava il maiale nella Calabria dove sono cresciuto: urla sconvolgenti del povero animale, vapori diffusi, interiora per terra, sangue sparso ovunque. Una felice festa di sangue. Non è uno spettacolo per bambini, ma uno non può rimanere bambino per sempre, ci ricorda giustamente Martinec.

Non tutto torna in questo schema di odio e amore fra amici, ex-, compari di bevuta e tipi stravaganti, che ricorda un po’ alcuni film di Menzel tratti dalle pagine di Bohumil Hrabal, in cui con venature un po’ biedermeier e agrodolci il Maestro della “nova vlna” cecoslovacca illustrava vizi e capricci del cittadino medio della campagna di un paese socialista. Qui Martinec esagera forse un po’ nell’affastellare in un solo punto spazio-temporale dei gangli che testimoniano di problematiche giunte a maturazione, ma impossibili da risolvere nell’arco di una giornata. Nel contesto delle unità aristoteliche, il tutto sembra un po’ troppo simbolico e forzato ed il finale è piuttosto indeciso. Il gruppo attoriale è abbastanza affiatato, ma non spiccano valori interpretativi di rilievo (per dirne una: mancano attori noti in patria o con una carriera rilevante). Rimangono qua e là delle notazioni interessanti: il rapporto affettivo con l’animale che verrà da lì a poco macellato, l’evoluzione della metodologia, al passo con le direttive europee (ormai si usa, giusto per capirsi, un proiettile secco in testa per evitare inutile dolore alla bestia), la crisi di crescita del figlio maschio, forse già pronto ad assistere per la prima volta a questo rituale di violenza, che però sarà causa di gioia e condivisione amicale. Insomma, Martinec sa raccontare, recupera senza eccessivi stereotipi un luogo comune della cultura ceca tradizionale, lo mette in dubbio (potrebbe essere l’ultima volta che si può ammazzare il maiale a casa) e ci fa venire in mente che begli animali (sì, sociali, è vero…, ma sempre animali) siamo noi umani.

Beata Parkanova ha invece alle sue spalle già una filmografia di tutto rispetto, comprendente anche un documentario e altri due lungometraggi. Con “Moments” (2018) aveva seguito la crisi amorosa di una giovane donna, mentre il successivo “The Word” (2022) ci aveva convinto con la sua interessante ricostruzione di un caso di coscienza e fedeltà ai propri principi, ambientato nella Cecoslovacchia comunista (https://www.nonsolocinema.com/the-word-di-beata-parkanova.html). Con questo suo ultimo “Tiny Lights” la regista quarantenne torna per la terza volta nel principale festival ceco, e decide di presentare una vicenda di dissoluzione familiare attraverso gli occhi fiabeschi, un po’ incantati, ancora lucidi e puri, ma non per questo del tutto ingenui di una adorabile bambina, Amalka. La piccola attrice scelta, Mia Banko, è già una scommessa perfettamente riuscita del casting: l’indole giocosa che conferisce al suo personaggio si fonde con una curiosità ed un’intelligenza che fanno filtrare, raggio dopo raggio, i fasci di luce del titolo, che purtroppo non portano però a schiarimenti emotivi, ma la lasceranno comunque immersa in tristi chiaroscuri genitoriali. Fuor di metafora, suo padre e sua madre sono in crisi aperta, e, come nel film di cui sopra, vorrebbero tenere la figlia all’oscuro dei “giochi dei grandi”. Lì era la violenza rituale della maialatura a fare da meccanismo di passaggio, qui sono le bassezze, le crudeltà da salotto, i tradimenti vili di mamma e papà ad adombrare il sole dell’amore familiare. Anche qui, di nuovo, la generazione più anziana non ha la chiave per risolvere il groppo di gelosie, piccole ripicche e incapacità gestionale dei padri: anzi, i nonni sembrerebbero poter essere individuati come una concausa del comportamento capriccioso che regna nella famigliola. Oggetti simbolici di non secondaria importanza sono qui le porte mezze aperte attraverso cui origliare, le finestre e i vetri un po’ opachi che la bimba usa per guardare il mondo dei grandi e il giardino che si trova al di fuori di una casetta colorata, risplendente, ma che in fondo rappresenta un dorato scrigno pieno di acredine e ipocrisia. La Parkanova conferma le sue qualità di narratrice non scontata, e la sua filmografia potrebbe servire anche come punto di riferimento e spunto per una riflessione più strutturata sul valore del cinema femminile ceco della sua generazione, e sulla capacità delle autrici ceche di immedesimarsi in psicologie di varie età e fasce sociali, opponendosi a certi scivoloni e ovvietà del cinema “maschile” commerciale di Praga e dintorni. Qui la brava Beata riesce perfino a far scattare alcuni parallelismi pregevoli, come per esempio quello con il piccolo capolavoro della Sciamma, “Petite maman”, per la capacità evocativa della protagonista, o quello con certo cinema indipendente alla Sundance, che fa strame degli stereotipi della “perfetta” famiglia borghese con puntute e inaspettate osservazioni critiche. Non mancano, infatti qui, risate sarcastiche o accenni da fiaba nera, momenti in cui i rapporti tossici e involuti fra gli adulti sfociano quasi nella surrealtà, filtrata sempre dagli occhioni indagatori della piccola Amalka. Curioso che anche qui il tutto si svolga nell’unità di un giorno, sorprendente e fatale per la bambina, che aspettava un dì di festa in gita, e si ritrova invece un probabile divorzio in casa. La regista ha dichiarato che, sebbene non lo abbia usato come pretesto auto-terapeutico, questo film riprende con una certa fedeltà l’infelicità della sua famiglia e avvenimenti che lei stessa ebbe a dover sperimentare.

Insomma, quest’anno il cinema ceco potrebbe meritatamente ambire a qualche premio non secondario, e come avevamo già scritto per la Parkanova (auspicio che confermiamo) anche il buon Martinec va seguito per il suo talento, che può sicuramente migliorare e diventare una promessa mantenuta.