Dulcinea, un nome che evoca leggende, cavalieri erranti, amor cortese, delusioni, solitudine, avventure rocambolesche e guerre personali. E di questo nome se ne serve Luca Ferri per questo lavoro non facile, che prova a rappresentare oggi – o meglio nella Milano degli anni 90 – i personaggi di Miguel de Cervantes.
Una giovane ragazza si prepara a ricevere nel proprio appartamento un cliente. C’è lei davanti a uno specchio che si agghinda: capelli, smalto, scelta dell’abito. Siamo a metà degli anni 90, nella Milano di Tangentopoli, epicentro della fortissima scossa di terremoto nella politica italiana. Dulcinea – il nome della giovane – vive la sua vita incurante di ciò che la circonda, dei più dei 25 messaggi in segreteria, come se il maggiordomo, un Don Chisciotte factotum, che lustra, pulisce, strofina, lava, fosse invisibile. Un uomo impeccabile, con camice da lavoro che ossessivamente passa piumini e spugnette e trafuga alcuni oggetti della ragazza, riponendoli in sacchetti di plastica, e successivamente nella sua valigetta ventiquattr’ore.
Altre volte gli oggetti di feticcio vengono distrutti, vittime di raptus maniacali, in una meccanica che conduce alla ripetizione di un rito di celibato e di solitudine. C’è la rappresentazione di autodistruzione, autodivinizzazione, vari complessi di Amleto e simili. E poi l’amore e il potere e la pericolosa combinazione di questi due fattori.
“Dulcinea è il primo di tre lavori girati integralmente all’interno di ambienti domestici. L’ho chiamata “trilogia dell’appartamento”. Si tratta di tre lungometraggi ossessivi e patologici in cui la solitudine delle vicende dei protagonisti è messa in costante rapporto con lo spazio architettonico ospitante. Tre lavori in tre formati diversi: 16mm per Dulcinea, VHS e videocamera digitale per gli altri due, attualmente in fase di realizzazione. In Dulcinea la solitudine che permea i protagonisti è una presenza assente, celata da azioni routinarie e dalla didascalica successione degli eventi che li colloca apparentemente fuori dal tempo e dalle miserie umane. Svuotati da ogni psicologismo, gli attori aderiscono per tutta l’opera ad una postura ingessata, conducendo lo spettatore di fronte a una pièce marionettistica di riesumazione e sessualità feticista”.