Amir e Narges sono due giovani iraniani come tanti altri, un ragazzo e una ragazza con dei comprensibili sogni nel cassetto, costituiti da una minima stabilità finanziaria e dal conseguente progetto di metter su famiglia. Ma l’Iran è un paese complicato, e pur senza essere degli oppositori del regime, i due dovranno lottare per far coincidere i progetti delle proprie famiglie, le differenti condizioni lavorative e, si scoprirà presto, le proprie coscienze sociali.
Behrooz Karamizade è nato in Iran, ma è emigrato da bambino in Germania, dove si è formato ed ha studiato da regista. Solo poco prima dei trent’anni ha ripreso a viaggiare nel proprio paese d’origine, che è stato comunque sempre al centro della sua attenzione registica, per esempio in alcuni suoi precedenti cortometraggi dedicati all’infanzia. Il presente progetto è nato in collaborazione fra la produzione tedesca della BASIS BERLIN Filmproduktion e cast e manovalanze locali di una zona settentrionale dell’Iran, affacciata sul mar Caspio. Ne risulta un film critico verso le condizioni di vita del paese, che nel personaggio di un intellettuale perseguitato e ricercato dalla polizia si permette anche dei chiari riferimenti alla dissidenza, ma che riesce nel piccolo miracolo di dire delle cose interessanti senza eccessivi compromessi logistici e senza incappare in ostacoli produttivi. Difficile sarebbe stato, per esempio, e poco credibile, ambientare la vita di un villaggio di pescatori iraniano con attori stranieri e in location ricostruite ad hoc in chissà quale altro paese.
Questo “Reti vuote” è simbolico fin dal titolo, con il quale l’autore ha dichiarato di voler istituire un paragone con le vite dei suoi personaggi, spesso intrappolati nelle spire di una vita che sembra imprigionarli come storioni o carpe da dare in pasto agli affamati. I temi principali sono quelli del denaro e della realizzazione economica, che spingono il povero Amir ad intraprendere lavori sempre meno legali per permettersi il lusso di interagire con la famiglia alto-borghese della sua amata; ciò ci riporta anche a certo cinema del primo Farhadi, in cui venivano contrapposte fasce sociali differenti, che testimoniavano delle difficoltà di integrazione e delle aspirazioni alla perequazione da parte dei meno fortunati, anche nel cinema del Maestro spesso presentati nel momento di passaggio o di crisi di una vicenda familiare o amorosa.
Collegato con il tema del potere dei soldi è ovviamente il sottobosco criminale del business della pesca, in cui corruzione, pratiche illegali e sfruttamento dei lavoratori sono inevitabili addentellati, ben evidenziati e descritti nella sceneggiatura. Non manca, però, come si accennava sopra, il riferimento alle libertà civili, soprattutto nel personaggio di Omid, in fuga dalle autorità, che sogna di poter emigrare illegalmente nel confinante Azerbajdzan per conquistare una maggiore libertà espressiva. Fra Farhadi e pescatori, si dirà, forse un riferimento al Visconti degli inizi si potrebbe cogliere? In realtà l’elemento (neo-)realistico può essere effettivamente intravisto nella rappresentazione della lotta dei pescatori contro il mare, affascinante ma fonte di continuo pericolo, o nelle dinamiche di riscatto sociale e di denuncia, ma Karamizade predilige per lo più un forte processo di simbolizzazione e astrazione, che utilizza i toni chiaroscurali della fotografia di Ashkan Ashkani (che fotografa anche le opere del dissidente Mohammad Rasoulof) per restituire un Iran che sembra, appunto, “imbrigliato” fra le ristrettezze della città, caotica, disegnata in spazi incerti o senza prospettiva, e la impossibile fuga rappresentata dall’orizzonte marino, che nonostante l’ampiezza liberatrice delle inquadrature restituisce però immondizia, pesce rubato e anche cadaveri.
La sporcizia, la massa infinita di plastica e rifiuti che il mare pescoso restituisce a ogni sollevamento delle reti, è, nelle intenzioni registiche, anche metafora di una lotta improba contro i difetti della società, ormai abituata pessimisticamente al compromesso con vizi e difetti ritenuti ineliminabili. Il compromesso, la via di mezzo, che necessariamente tende la mano al male (foss’anche quello “minore”), lo scendere a patti con la propria coscienza sono il portato principale di un’opera imperfetta ma piuttosto interessante, in cui l’“innocente” Amir è inizialmente animato da propositi idealistici (tanto da essere l’unico a raccogliere la sporcizia dopo ogni giornata di lavoro), ma che purtroppo alla fine non riesce a mantenere intatto, “pulito” il proprio mondo interiore.