La non troppa riuscita parentesi veneziana di Une vie sembra essere stata accantonata da Stéphane Brizé, che sceglie di tornare prima a casa, nella piazza di Cannes, e poi al suo cinema drammatico e sociale. Lo spirito è quello de La loi du marché, con un Vincent Lindon ancora una volta in grande spolvero, che in En guerre veste i panni (e il gilet, rosso però) dell’operaio capopopolo Laurent Amédéo, alla guida della protesta dei dipendenti dello stabilimento Perrin scoppiata in seguito alla decisione del CdA tedesco di delocalizzare, ignorando le rassicurazioni fatte sulla stabilità dell’impiego ai centodieci lavoratori.
Insomma dimentichiamo l’argent per ritornare alla dura legge del mercato, che in questo caso così come in tutti gli altri, continua a esigere flessibilità da parte dello strato più basso per incentivare la produzione su base tecnica, in ottemperanza delle politiche neoliberiste che hanno costituito la base della globalizzazione, mettendo da parte i diritti acquisiti dalla classe lavoratrice nel tempo. La rappresentazione di Brizé è chiara e immediata, e non cerca di mettere in risalto nient’altro che le più comuni conseguenze a cui questo sistema dà atto. E lo fa con piglio documentaristico, gambe (e macchina) in spalla, movimenti a schiaffo, tagli bruschi, un montaggio martellante, ovvero con lo stesso registro del più classico dei film di guerra, perché En guerre non è un film che fa metafora del proprio titolo. Come al solito verbosissimo, il registra francese mette in scena un Free fire socio-politico, uno stallo lungo quasi due ore che non ha interesse a risolversi, ma piuttosto preferisce offrire un’istantanea ben precisa del problema in tutti i suoi vicoli ciechi.
Brizé infatti pone il suo sguardo su quella che è la manifestazione del punto di rottura a cui si è giunti nel sistema di relazioni tra agenti economici capitalistici e la forma statale liberal-democratica. Laurent e la sua brigata vorrebbero quantomeno un dialogo, una possibilità per provare ad accordarsi, in altri termini uno spazio che permetta loro di dialogare da pari in modo da potersi garantire i mezzi per decidere anche in minima parte del proprio futuro; possibilità che verrà loro negata anche quando Hauser, il finanziere titolare dello stabilimento, verrà costretto a sedersi a un tavolo di pace. Il fulcro della questione è che non sono solo gli sbocchi per il suddetto dialogo a mancare, ma la stesse condizioni affinché tale incontro si renda utile. In altre parole: siamo in guerra, una guerra poiché il tempo della diplomazia è finito, rimane lo scontro a viso aperto; laddove non c’è un terreno per mediare, rimane solo un campo dove far far valere la legge del più forte, sperando che essa non vada a coincidere con quella del mercato – dal punto di vista di Lindon e compagni.
Tutto il resto è corollario. I drammi privati di Laurent e della sua cerchia più stretta di collaboratori (a cui vengono dedicati comunque pochi minuti) e le dinamiche di evoluzione del conflitto passano direttamente in secondo piano. Brizé passa quindi a martellare. Dirompente ed iperbolico in fase di scrittura come suo solito, il nostro ci assorbe nel ritmo del film, che batte a cadenza celere ma regolare per tutta la durata. La ripetizioni, spesso inutili, sovente con minime variazioni, si fanno lentamente strada fino al punto in cui ogni elemento del film diventa slogan, rimbombando come le urla dei lavori durante i cortei, portando in scena una vera guerra di trincea e d’attrito.
Il montaggio scandisce quindi le riprese come un metronomo, a volte scivolando nel fastidioso in alcune sequenze per la prevedibilità che necessariamente questo tatticismo comporta. Un prezzo da pagare per mettere in atto un’azione assai complessa, ovverosia filmare il nemico, nemico che però non c’è. Si insiste su ogni strattone, ogni segnale, ogni striscione – tutti simili agli altri, tutti ripetitivi – che vorrebbero far breccia. Non c’è quindi un’arma migliore – o meglio, le risorse di chi sta da quella parte della barricata sono così articolate al loro massimo potenziale – c’è proprio un limite culturale invalicabile. E così avanti a martellare, in uno spazio claustrofobico attraversato solo da da continue scariche di tensione. E lo stesso vale per la scrittura dei personaggi, sempre decisi nel loro (tantissimo) parlare, a tratti un sentenziare, disperati in partenza e quindi disposti a tutto mentre si arrovellano per trovare modi ancora più efficaci per far risuonare le loro ragioni. E lo stesso vale, appunto, dal punto di vista sonoro, nel momento in cui suoni e musiche del solito Blessing battono, aumentano il volume ma non cambiano, accompagnando il martello ormai venuto a noia a chi legge con sonorità chiuse e sorde.
En guerre e non più en garde perché il conflitto è già esploso in tutta la sua potenza e la sua matassa non è più districabile. Si tratta alla fin fine di un film semplice, compatto come un blocco di cemento che vuole offrire uno scorcio sulla sfumatura decisiva della moderna lotta di classe senza la presunzione di scoprire qualcosa di nuovo (vero, egregio Brady Corbet?) e mostrare con quale profondità questa situazione di incertezza quasi esistenziale possa innervarsi nel tessuto sociale. En guerre si pone dei limiti e li rispetta, non uscendo mai dal seminato, rispondendo alle sue stesse domande e rispettando in toto l’obiettivo prepostosi. Certo, senza un Lindon così non avremmo avuto un tale impatto espressivo, senza un regista così orientato e di parte l’esito sarebbe stato più lucido e meno disordinatamente dirompente, ma lo spirito d’azione (politica, ma anche e soprattutto cinematografica, perché si tratta di un film action che più puro non si potrebbe per mise-en-scène) di Brizé è quanto pompa linfa vitale in En guerre, in cui si può comunque intravedere, se si segue nel suo sforzo animoso il regista, uno spiraglio di ammirazione e speranza verso una parte di popolazione che si accorge che la politica nazionale del Macron di turno va sempre nella stessa identica direzione rispetto al passato ma che non è disposta ad arrendersi ai rigurgiti pseudo-nazionalisti dall’altra parte dell’emiciclo parlamentare.