Un po’ in ombra e accatastato sotto una serie di titoli nella sezione del Forum della 68esima Berlinale, aguzzando la vista si poteva scorgere Grass, all’epoca, ovvero solo poco più di un anno fa, l’ultimo film di Hong Sang-soo, ora penultimo dopo Gangbyun hotel, sul quale abbiamo già detto azzardato due parole in occasione di Locarno 71. Kim Min-hee questa volta è una scrittrice che nega di essere tale e trascorre la maggior parte del tempo in una caffetteria seminascosta nella quale ogni sera fino a tardi un’umanità varia, tipica e atipica al tempo stesso, è impegnata a ripercorrere gli avvenimenti della giornata bevendo, ridendo, imprecando, piangendo nell’ormai familiarissima atmosfera di convivialità della poetica del regista coreano.
La sua musa e compagna si chiama di nuovo Areum, come in The day after, e fa da mobile perno attorno al quale ruota l’opera. Lungi dalla narrazione ingenua e puerile che vuole ricondurre le evoluzioni e i movimenti dell’ultima fase del cinema di Hong alla sua esperienza adultera, Grass guarda sempre indietro, ripercorre percorsi già tracciati e si diverte a calpestare le orme lasciate dai predecessori creandone così di nuove, e vale la pena sottolineare quest’aspetto perché il tema del moto continuo e del “ripassare” sui solchi emerge in maniera più evidente rispetto a tutta la filmografia del nostro: infatti, con una geometria nella trattazione e analisi del suo stesso cinema che – non smetteremo mai di ribadire – consiste nella medesima operazione di Sion Sono anche se a una profondità metacinematografica differente, Hong fabbrica una sorta di saggio organico che isola una delle sue chiavi di scrittura e lettura. Sa tanto di variazione, di a parte, questo Grass, non a caso dura un’ora circa, vuole apparire un’opera minore, è una chiave di volta più che un pietrone angolare (come sono i film citati poche righe più su, ad esempio), e funziona meglio se si guarda a esso come a una lente per approcciare meglio i percorsi a spirale del coreano.
E se su queste pagine parlando di Hong spesso citiamo Sono (oltre al fatto che ci piace fare questo genere di cose gratuitamente) è perché condividono lo stesso approccio nei confronti dell’architettura della propria opera nel suo assieme. Grass è, in soldoni, una sorta di I am Keiko, che pone al centro il movimento come cosa in sé e tenta di svelarne i presupposti e l’anima, provando a raccontare il suo essere concepito come fondante, in quanto caratteristica, all’interno del percorso registico del suo autore. Nella fattispecie Hong rivolge la sua attenzione al moto nello spazio e non del/nel tempo perché a ogni similitudine con l’autore giapponese corrisponde una differenza ancora più grande, e non è possibile non notare nel suo lavoro la volontà di staccarsi da uno spazio di immanenza, oppressivo o rassicurante, o entrambi, a seconda della necessità.
Aureum/Kim sembra divertirsi nell’azione senza senso di andare su e giù per la stessa rampa di scalini, lontano dalla volontà o necessità di fare qualcosa o andare da qualche parte, concentrata solo sul rimanere in movimento, sul non fermarsi mai nemmeno quando si tratta di prendere appunti (sempre inutili, perché lei non è una scrittrice anche se tutti sono portati a credere al contrario, noi inclusi) sul portatile mentre ascolta il chiacchiericcio proveniente dai tavoli. È un po’ lo stesso Hong che fa così, in quanto regista traspone con il suo cinema storie che vede, sente, vive o inventa (che tanto è lo stesso), ma è anche quello che fa ognuno secondo lui, sta sempre in movimento dentro e fuori rispetto a tutto quello che accade attorno. Non certo un’idea rivoluzionaria, ma è la mise candida con cui lo porta in scena che lo rende apprezzabile, espressa in modo così sottile e ambigua che non è possibile non rimanerne rapiti.
Come d’altronde non è rivoluzionario il suo registro tecnico, dalle idee di montaggio mutuate integralmente dalla prima NV a una regia che conosce soltanto primi piani il cui immobilismo è turbato da qualche panoramica a schiaffo, e una particolare attenzione alla progressione posizionale, sia dei personaggi che della mdp. E se nei dialoghi che poi costituiscono lo spirito della pellicola fa capolino l’argomento della morte (sviscerato poi in Gangbyun hotel), non bisogna lasciarsi ingannare e seguire il filo dei discorsi, che non hanno senso in senso ampio, ma forzarsi a considerarlo un elemento necessario rilevante in quanto manifestazione pura e semplice di dinamismo e non un veicolo. D’altronde pure gli argomenti si ripetono, ripassano sopra e ogni volta pur sembrando identici si diversificano per qualcosa, ma a Hong interessa quello che succede ai margini, ciò che non si nota e cambia veramente. In una parola: lo sguardo di Hong è fissato sul sottobosco che abita la sua umanità, sullo scorrere delle cose sotto il movimento continuo, richiamato continuamente da quei quintali di piante che circondano l’ambientazione, quelle piantine considerate solo in quanto erba, che segue il suo ciclo vitale a pochi centimetri dal terreno sullo sfondo della vicenda in un movimento inarrestabile ma insignificante all’apparenza.
Ancora una volta quindi è il silenzioso lavoro di sottrazione che però anima il tutto, qui portato a essere come metafora e non modus operandi, silenzioso ma non per questo meno movimentato rispetto al “resto” del film, con cui Hong ci priva del volto dei personaggi, di una chiara spiegazione delle loro parole o azioni, o della loro presenza tout court a volte (rimuovendo i personaggi o solo il loro corpo seguendo una discussione tra ombre in un’occasione), con l’obiettivo di parzializzare la realtà, di isolare piccoli pezzi di vissuto chiamando chi guarda a trovare una collocazione. Non dal punto di vista logico però, si tratta di una specie di gioco di prestigio con gli occhi di chi guarda; sostanzialmente porre a mezz’aria una cosa significa costringere lo spettatore a immaginare una serie di meccanismi sofisticatissimi per figurarsi una spiegazione, dimostrando come le sue scelte minimalistiche siano tali soltanto di nome – è movimento attraverso la quiete. La sostituzione della dialettica campo/controcampo con la tecnica dello zoom ottico è la mossa che permette a Hong Sang-soo di raccontare il suo togliere e, nel farlo, raccontare di nuovo, rivisitando Ozu per la prima volta da qualche anno con rinnovata grazia, puntualizzando uno dei passaggi emozionali connaturati al suo cinema e portandolo alla luce ribaltando la condizione di partenza nell’evidenziare – il sincero passo in avanti è questo – la ritrosia con cui approccia il cinema, e che diventa essa stessa cinema con Grass.