Premiato con l’Orso d’argento alla 69esima Berlinale, Grazie da Dio è quel film che, a sentirne parlare, non crederesti mai possa essere stato realizzato da François Ozon. È durante la visione che si cambia idea, accorgendosi di come il regista francese sia stato capace di trasformare un’opera di denuncia in un altro tassello perfettamente centrato nella sua filmografia. Non si tratta di uno Spotlight lionese, ma di un vero e proprio dramma familiare con tutti i crismi della poetica di Ozon.
Il titolo deriva da’infelice (eufemismo) espressione del cardinale Philippe Barbarin nel commentare una serie di molestie e stupri commessi dal prete Bernard Preynat in un arco di tempo di quarantacinque anni venuti a galla nel 2016. “Grazie a Dio quasi tutti i casi sono prescritti” disse, facendo calare un silenzio irreale nella sala conferenze da cui pontificava, tentando di giustificare la situazione. Vennero alla luce circa settanta casi con vittime accertate grazie al lavoro dell’associazione La Parole Libérée, e il film ne segue la nascita e i primi sviluppi fino alla sanzione contro Preynat, in ogni caso ancora in attesa di processo regolare.
Grazie a Dio si sviluppa come un dramma corale per gradi, introducendo con calma i suoi tre protagonisti, figure chiave profondamente diverse fra loro per dare una triplice idea delle conseguenze che un abuso infantile può avere sulla vita adulta. Alexandre è il motore di tutto, il primo a farsi coraggio e a denunciare, François l’anima più combattiva e appassionata, Emmanuel quello che ha subito il peggiore trauma, fisico e psicologico. Alexandre, cattolicissimo e sostenuto dalla famiglia, si persuade che sia necessario rivolgersi alle autorità in seguito all’indifferenza da parte della Chiesa, e la prima parte di film ne segue il percorso psicologico. L’intenso uso del voice-over come mezzo narrativo restituisce la freddezza e l’arroganza di un’istituzione che preferisce continuare a tutelare se stessa facendo finta di nulla; lettere e mail scritte e lette che sovrastano l’audio diegetico trasmettono la sensazione di impotenza che affligge il primo protagonista.
Ozon tuttavia non esagera con questa tecnica e si limita a rarefarne l’utilizzo man mano che il focus passa su François, istintivo e mangiapreti che finisce ugualmente per sbattere contro il muro di omertà (soprattutto a livello mediatico), adottando anche un approccio registico più movimentato, con un montaggio più ritmato. Infine Emmanuel, che non ha mai superato il trauma ed è ancora oggi soggetto a crisi psicologiche e ripercussioni fisiche, vede il “proprio” terzo di film ritornare su toni più pacati e riflessivi, pur con qualche spazio in più lasciato alla costruzione della tensione. Quello che fa Ozon di fatto è costruire una climax che passa dal pubblico al privato, dal macro al micro. Alexandre affronta la Chiesa e i relativi meccanismi di potere economico-politico, il conflitto principale di François è con la sua famiglia e l’incapacità di rapportarcisi normalmente in più di un senso mentre Emmanuel deve fare i conti con se stesso e la sua sfera intima, irrimediabilmente danneggiata e segnata da difficoltà relazionali.
Ma il film si divide su due fronti, cioè se da un lato affronta su una molteplicità di livelli le dinamiche innescate dagli abusi in ogni sfera della vita di una persona (personale, familiare, sociale), dall’altro costruisce, in pieno spirito ozoniano, un perfetto dramma borghese che, nel contesto di questa tripartizione, esamina cosa succede non tanto nella testa delle vittime, ma in quella di chi vive con loro, che poi è lo stesso punto di vista di Ozon e dello spettatore. Il bersaglio polemico attaccato più spesso e duramente nel film è il silenzio, di chi sa e non denuncia o magari insabbia pure (la gerarchia ecclesiastica), di chi fa finta di non vedere per vergogna o fuga dalla complessità (i benpensanti), e chi soffre la situazione perché teme i pettegolezzi o è troppo innamorato della sua immagine pubblica o non regge la convivenza con qualcosa su cui non hanno influenza (per lo più i familiari, come il fratello di François, i genitori di Alexandre, la compagna di Emmanuel).
Fanno capolino di nuovo i perbenismi e le ipocrisie di una generazione che fa fatica soltanto ad ammettere l’eventualità di un episodio del genere, figurarsi uno schema così grande, di pari passo con una congiuntura per cui la religione diventa una sorta di àncora politica per cui un’azione così forte come una denuncia così roboante libera schiere di avvocati difensori nel mondo dell’informazione, della giustizia e della politica – Lione è tra le altre cose la città più cattolica di Francia.
Tutti i leimotive di Ozon ritornano nel film, configurandolo come un’indagine sui meccanismi familiari, coniugando un film di denuncia, un film-inchiesta che riassume un caso che non può non riguardare tutta la Francia con una parte più teatrale, radicata nell’ambito sentimentale dei protagonisti, ai quali il regista aggiunge poco o niente, limitandosi a concentrarsi molto sulla direzione attoriale passando come autore più in secondo piano, scelta comprensibile per non alterare troppo un equilibrio elegante venutosi a formare durante la fase di scrittura. Per certi versi magari Grazie a Dio è un’opera scolastica senza nerbo in alcune parti, ma non si può trascurare la finezza con cui Ozon allinea i vari intrecci ed elabora i personaggi con due ordini di ripartizioni. Uno Spotlight meno stitico e ruffiano, più sagace e sottile.