Figlio d’arte del compianto Sakamoto Ryūichi (1952-2023), alla cui scomparsa ha dedicato il film-concerto Ryuichi Sakamoto | Opus, presentato Fuori Concorso alla scorsa edizione del festival veneziano, il poliedrico Neo Sora ha scelto nuovamente Venezia per il suo debutto in qualità di regista e sceneggiatore, regalandoci con Happyend un racconto di formazione che, attingendo con sapienza alla tradizione estremorientale del genere, presenta un sottotesto inaspettatamente politico, senza con ciò compromettere la tenerezza dello sguardo con cui è descritta la stagione dell’adolescenza. In Orizzonti.

In un futuro prossimo, il gruppo di amici riunito intorno a Yūta – l’esordiente assoluto Kurihara Hayato, così come la maggior parte dei giovani protagonisti – e Hidaka Yūkito – decide di compiere la bravata definitiva prima dell’arrivo del giorno del diploma: ribaltare la nuova macchina del preside – il fluviale Sano Shirō, uno dei caratteristi più noti in patria grazie ai suoi quasi 300 ruoli tra cinema e televisione. Dinanzi a questo affronto, quest’ultimo decide quindi di installare un sistema di sorveglianza di ultima generazione, con cui monitorare e punire in tempo reale gli studenti. Questo cambiamento scatena una divisione tra i ragazzi, tra chi, come Kō e gli altri “stranieri”, non ha paura di alzare la voce affinché le cose cambino e chi, come Yūta, preferirebbe invece godersi gli ultimi giorni spensierati di liceo.

Musicista, traduttore e, dal 2020 in poi – anno della presentazione a Locarno del suo corto più acclamato The Chicken –, sempre più cineasta, Neo Sora firma con Happyend una sceneggiatura dai riferimenti illustri: difficile non intravvedere infatti l’influenza di A Brighter Summer Day (1991) di Edward Yang nelle dinamiche di attrazione tra Ata – Hayashi Yūta, unico attore professionista del cast giovanile – e la compagna di classe di origini taiwanesi Ming – Peng Shina – , e più in generale il tono melancolico ed esistenziale che contraddistingue i ritratti generazionali di Iwai Shunji (Lily Chou Chou no subete), come anche dell’Anno Hideaki di fine anni Novanta (Love & Pop, Shikijitsu).

Tuttavia, è nella consussistenza di serio e faceto, resa possibile dalla miracolosa armonia del comparto attoriale, che Happyend si contraddistingue dai suoi predecessori.

Se infatti i suddetti procedono alternando il dramma individuale al lirismo o all’umorismo, nel film in questione quest’ultimo non abbandona mai veramente la scena, dal momento che, anche nei momenti in cui si affaccia un litigio, una separazione, o una questione politica, la scrittura di Neo Sora provvede a inserire una risposta arguta o un contrappunto musicale – aspetto che l’autore ha curato personalmente, lavorando a quattro mani col compositore Lia Ouyang Rusli – che evita la discesa definitiva nel dramma, a segnalare come, nell’adolescenza, anche le difficoltà che sembrano insormontabili ai diretti interessati siano di fatto edulcorate dalle infinite possibilità della gioventù – ragion per cui anche la separazione finale del gruppo di amici sarà, a conti fatti, un “happy end”.

Ciononostante, non significa che Happyend sia un film che prende le cose alla leggera. Le questioni politiche cui si accennava sopra percorrono tutta l’opera e si incarnano nei rispettivi personaggi: Tom – Arazi –, di padre afroamericano, e Ming, nata e cresciuta in Giappone da genitori taiwanesi, testimoniano dell’impasse identitaria degli hāfu (ovvero “half”, nel senso di origine etnica mista) e degli immigrati di seconda generazione, sui quali gravano false aspettative – come la competenza linguistica, quando Tom in realtà non è troppo a suo agio con l’inglese, né Ming col cinese – e stereotipi – come la tendenza all’insubordinazione o lo scarso senso civico. Ancora più delicato il tasto che tocca il personaggio di Kō, uno zainichi (lett. “residenti in Giappone”, discendenti degli immigrati coreani stabilitisi nel paese a partire dal periodo della dominazione coloniale della Penisola) vittima di narrazioni demagogiche, dalle quali discendono il trattamento discriminatorio delle forze dell’ordine e dell’istituzione scolastica. Istituzione che, peraltro, al di qua dello schermo ha fatto molto parlare di sé per alcuni casi di cronaca, come escludere gli studenti “non puro-giapponesi” dalle conferenze di politici locali, o introdurre un sistema a punti con cui facilitare l’espulsione degli elementi scomodi.

Su tutto, incombe infine l’ombra del big one, il grande terremoto di magnitudo 8 che, all’incirca una volta ogni cento anni, ha messo in ginocchio il Giappone, e in vista del quale proprio due settimane fa è stata diramata un’allerta nazionale – alla quale aziende e amministrazioni locali hanno risposto con totale indifferenza. Basti pensare che, alla faccia dei falsi allarmismi, l’ultimo terremoto di questa entità è stato giusto nel 1923…

Documento importante per capire come parla, vive e pensa la generazione che si appresta a ereditare il paese nei prossimi anni, Happyend esibisce pur sempre qualche ingenuità nel rappresentare la società giapponese come eccessivamente multietnica – al di fuori delle grandi metropoli, trovare giapponesi figli di matrimoni misti è cosa rara –, “politicizzata” secondo la definizione euroamericana – ovvero, è sostanzialmente dalle proteste studentesche degli anni Settanta (Zengakuren e affini) che in Giappone non si sente parlare di occupazioni, né tantomeno di mobilitazioni/manifestazioni su vasta scala – e attenta alle sue ramificazioni identitarie – raramente gli zainichi di oggi mantengono un qualche retaggio linguistico-culturale coreano, come invece esibito da Kō e dalla madre che gestisce un izakaya famoso per i suoi kimbap.

Ciò non è comunque sufficiente a scalfire il giudizio complessivo su Happyend, opera da canonizzare come nuovo classico del cinema di formazione giapponese, anzitutto in virtù della maturità di utilizzo del mezzo, dove la profondità di campo, gli scavalcamenti e il fuori campo vengono manipolati con sapienza per ingannare lo spettatore, garantendo un continuo cambio di prospettiva su quella che, per alcuni, potrebbe sembrare una semplice storia di ragazzi, per soli ragazzi.