Kosovo, inizio degli anni 2000. Fahrije, vedova da quando il marito è stato ucciso durante il conflitto con la Serbia nel 1999, è rimasta da sola a crescere i due figli insieme al suocero. Nonostante tutte le difficoltà del microcosmo patriarcale dove vive, decide di unire le sue forze a quelle di altre donne del villaggio di Krushë mettendo in piedi una piccola azienda autogestita che produce l’ajvar, la tipica salsa di peperoni dei Balcani. Gli ostacoli da superare saranno molti, e arriveranno anche dalla stessa famiglia di Fahrije…

Una vera rivelazione, questo primo lungometraggio della regista kosovara Blerta Basholli: arriva a Karlovy Vary 2021, nella sezione speciale “Horizons”, dopo avere fatto incetta di premi all’ultima edizione del Sundance (gran premio della giuria, migliore regia, premio del pubblico); è già prevista la proiezione del film a numerosi altri festival europei ed extraeuropei. E i giudizi unanimemente positivi tanto della critica quanto degli spettatori da un lato all’altro dell’Atlantico lasciano ben sperare in una sua ampia distribuzione nei prossimi tempi, il che sarebbe un traguardo non da poco per il lavoro di una esordiente nata a Pristina e per una co-produzione che mette insieme tre paesi balcanici normalmente poco presenti nel ricchissimo e variegato panorama cinematografico offerto dalle sponde e dall’entroterra dell’Adriatico orientale – per quanto negli ultimi tempi qualcosa si stia muovendo, come dimostrano, ad esempio, i successi macedoni alla Berlinale 2019 e la presenza di un lungometraggio kosovaro alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2021. Come che sia, in questo caso è innegabile che sia stato realizzato un progetto di grande qualità: un meccanismo sapientemente oliato per appassionare e commuovere il pubblico senza ricorrere a eccessi retorici, didascalici o edificanti, grazie anche a un’affascinante protagonista (Yllka Gashi) dalla recitazione quanto mai intensa e a un soggetto di sicuro impatto per la sua portata sia storica che etica.

Nei libri di storia sono già state scritte diverse pagine sulla prima metà del 1999, a cui risale quello che a suo modo è l’ultimo, drammatico capitolo del conflitto nella ex-Jugoslavia, tra la “pulizia etnica” perpetrata in Kosovo dal potere centrale serbo contro la minoranza albanese e musulmana e i conseguenti bombardamenti di Belgrado da parte della coalizione NATO guidata dagli Stati Uniti. Il capitolo successivo, sempre nei libri di storia, è la nascita del Kosovo come Stato indipendente, fortemente supportata dall’Unione Europea e mal digerita dalla Serbia e da alcuni suoi alleati. Poco si sa, generalmente, del “dopo”, di come ha ripreso a vivere e a crescere il piccolo paese rurale stretto tra Montenegro e Albania. Inoltre, mentre viene giustamente conservata la memoria di massacri come quello di Srebrenica e di altre città bosniache, è difficile che ci dicano qualcosa toponimi come Krushë e Madhe, piccoli villaggi di montagna dove le milizie serbe, nel marzo 1999, ricorsero alla stessa strategia applicata in Bosnia alcuni anni prima, arrestando e poi uccidendo un centinaio tra uomini e ragazzi e cacciando donne e bambini dalle loro case. Come nel caso di Srebrenica, ci vollero diversi anni per ritrovare i resti di chi era stato ucciso; molte famiglie non poterono mai seppellire i loro padri e figli.

Un film come Hive contribuisce senz’altro a colmare queste lacune, raccontando una storia realmente accaduta che non invita solo a riflettere sulle conseguenze del massacro e sui traumi a lungo termine di chi è sopravvissuto, come avviene ad esempio in altri film “al femminile” quali Il segreto di Esma o Quo vadis, Aida? della bosniaca Jasmila Žbanić, per certi versi affini ad Hive per il tono della narrazione e il carattere forte delle loro carismatiche protagoniste. Il fulcro del debutto di Blerta Basholli è infatti non tanto il passato da elaborare (che, pure, affiora dolorosamente quanto le punture sul collo di Fahrije, meno abile del marito ad addomesticare le api delle arnie nel giardino), quanto il futuro da costruire, futuro a cui, nonostante tutte le difficoltà, si può guardare con speranza grazie all’esempio fornito da Fahrije. E, per fortuna, le note esplicative che precedono i titoli di coda, relative alla vera Fahrije Hoti, possono confermare il nostro cauto ottimismo.

Il microcosmo rurale kosovaro non viene assolutamente idealizzato, anzi: in ogni inquadratura del villaggio di Krushë ne percepiamo l’arretratezza, la chiusura, la violenza e il sessismo derivanti dalle rigide norme della religione islamica. Siamo alla periferia di un paese grigio e senza una bussola. La tragedia del massacro ha lasciato sole molte donne che, da sempre discriminate e succubi dei componenti maschili della famiglia: ora, malgrado le esitazioni iniziali, non hanno altra scelta che prendere in mano la situazione: e proprio le donne, guidate da Fahrije, sapranno dare una piccola spinta propulsiva allo sviluppo della loro terra, ricorrendo ai frutti della terra stessa e mantenendo dunque un legame saldo con le proprie radici e le proprie origini.

Difficile non provare ammirazione per l’iniziativa della protagonista, esempio di un sana lotta per l’emancipazione femminile che riesce a non collidere con tradizioni secolari: la scena della preparazione collettiva dell’ajvar, tra chiacchiere e scherzi nonostante le minacce e i tentativi di sabotaggio degli uomini del paese, è molto eloquente in proposito. Hive (in albanese Zgjoj) è l’alveare: quello delle ostiche api lasciate in eredità a Fahrije dal marito, doloroso trait d’union tra il passato e il presente, ma anche quello a cui dà forma la stessa Fahrije con la sua famiglia allargata al femminile, resistendo a brucianti umiliazioni e sfidando pregiudizi che, come dimostra l’iniziale scetticismo della figlia adolescente, si sono già radicati anche nelle nuove generazioni. Per i giovani la fuga sembra un’alternativa piu’ allettante rispetto a un cambiamento del sistema dall’interno, e saranno le madri a dimostrare che invece è possibile mandare in frantumi il famigerato soffitto di cristallo pezzo dopo pezzo, senza emigrazioni né rivoluzioni.

A proposito, se a fine visione lo spettatore curioso volesse saperne di piu’ dei successi della vera Fahrije, basta cercare su Google “KB Krusha” per trovare immediatamente il sito dell’azienda che nel film muove i primi passi, oltre alle sue pagine su diversi social. Pur essendo rimasta radicata in territorio kosovaro occupandosi soprattutto di distribuzione a livello locale di prodotti fatti in casa, la “KB Krusha” sta anche iniziando ad esportare verso l’estero: ordinare un bel barattolo di ajvar online per credere.