Dopo il jidaigeki antimilitarista Zan (2018) – unico film del Concorso di Venezia75 che fosse riuscito a combinare coerentemente sperimentazione estetica e intenzione autoriale –, Tsukamoto Shin’ya torna al Lido con Hokage (Shadow of Fire), ultimo tassello dell’ideale trittico sulla guerra inaugurato nel 2014 da Nobi – remake del classico di Ichikawa del ’59, a sua basato sulle memorie di guerra raccolte nel romanzo omonimo di Ōoka Shōhei – che si volge questa volta al futuro, adottando un punto di vista inedito: quello di un orfano di guerra. Peccato per le considerazioni assolutorie circa i crimini del Giappone imperiale messe in bocca ai personaggi adulti, che riportano la parabola pacifista coi piedi per terra, richiamando lo spettatore a una doverosa collocazione storica. In Orizzonti.

In una non meglio precisata cittadina del Giappone, all’indomani dell’armistizio, una giovane prostituta – Shuri, qui alla sua prima prova nel cinema d’autore, dopo i numerosi ruoli televisivi e in un paio di romcom di grande richiamo – tira a campare come può, fino a quando l’arrivo un piccolo ladro – Oga Tsukao – in fuga dai contadini non la costringe a improvvisarsi madre. Il decorso della malattia che la affligge la costringerà però a cacciare di casa il figlio putativo, che finirà così per assecondare i piani vendicativi di un soldato squilibrato – Mirai Moriyama – pur di non essere abbandonato.

hokage

Progetto concepito da Tsukamoto quale riflessione sull’avvicinarsi della guerra al presente – data la risonanza mediatica e le ripercussioni economiche del conflitto ucraino, che in Giappone più che altrove in Asia sono diventate una presenza fissa di qualsiasi palinsesto –, e sul modo in cui le future generazioni – da qui la scelta di un comparto attoriale anagraficamente molto giovane, e quindi di privilegiare la prospettiva dell’orfanello – si confronteranno con essa, in bilico tra l’essere disposti a tutto pur di sopravvivere e la rassegnazione all’annientamento come unica alternativa alla violenza, Hokage segna un parziale ritorno alle modalità espressive degli esordi del Kaijū Theater – il gruppo teatrale sperimentale, e successivamente società di produzione, fondata dallo stesso Tsukamoto a fine anni Ottanta – per l’essenzialità (autoimposta) del linguaggio, con una mdp che oscilla tra apollinee inquadrature fisse e vertiginosi scatti in avanti con camera a mano – ulteriore epifania di un’entità che sembra celarsi al di là del fusuma bruciato nell’abitazione della prostituta, fuorviando lo spettatore –, e per l’approccio artigianale ai (pochi) effetti speciali, come il modellino delle rovine di Hiroshima che compare nel flashback del bombardamento atomico.

Più precisamente, Hokage sembra prendere le mosse dal precedente Kotoko (2011) – anche questo presentato in Orizzonti a Venezia68, dove fu incoronato Miglior Film –, in cui la costante presenza televisiva dei conflitti in Medio Oriente successivi alla Primavera Araba e la paranoia del terrorismo di matrice islamica portavano la neomamma protagonista – interpretata dalla cantante okinawana Cocco, alla sua prima, folgorante prova sul grande schermo – all’autolesionismo e alla violenza fisica, spostando però il conflitto dagli schermi dei televisori all’interno della mente di militari e civili.

Se dunque Nobi si interrogava sulla guerra quale dovere – verso la patria, certo, ma anche verso se stessi in quanto uomini educati al culto dell’automortificazione e del sacrificio –, e Zan sulla guerra quale reazione – alla confusione politica e identitaria che preludeva all’apertura del Giappone all’Occidente –, Hokage si confronta con la guerra quale prigione (mentale), dalla quale non solo è impossibile fuggire, ma che continua a fare prigionieri nella forma di trauma e ideologia tramandata forzosamente alle nuove leve: questa la sorte che toccherà anche all’innocente della vicenda, nel momento in cui il piccolo allungherà a un ex militare una pistola – ancora, uno strumento di morte il cui uso ingenuo conduce a un esito peggiore dell’uso consapevole, come in Bullet Ballet (1998) – con cui giustiziare il suo ufficiale in congedo.

Eppure, è proprio nel climax che Tsukamoto finisce per compromettersi, con una inaspettata apertura alla narrazione ufficiale del governo giapponese in merito alle responsabilità delle atrocità commesse durante la Guerra del Pacifico nei territori occupati.

Mentre inveisce sul suo vecchio ufficiale, il reduce interpretato da Moriyama accusa infatti costui di averli costretti a commettere atti inumani, e a dedicarsi corpo e anima a una guerra in cui non credevano, mentre l’interlocutore riesce a ridurre la questione al semplice mestiere del soldato – dacché in tempo di guerra, bisogna seguire gli ordini: una versione che il reduce non questiona, senza giungere al punto di ricondurre la mostruosità dei suoi crimini a se stesso o all’ideologia dominante del tempo – largamente condivisa dall’opinione pubblica –, bensì rimettendosi a un silenzio-assenso che lascia perplessi. E se a questo mancato mea culpa si aggiunge la rappresentazione pietistica degli altri reduci, rannicchiati nei bassifondi a ripetere cantilene senza senso, il rischio di dare ragione a chi vuole riconoscere nel Giappone di quegli anni una vittima tecnologicamente e spiritualmente inerme dinanzi al mortifero Enola Gay è purtroppo alto.

Nel complesso, ci sentiamo però di ipotizzare che Hokage non costituisca effettivamente la chiusura della trilogia bellica di cui sopra, ma che sia piuttosto da inquadrare come film di transizione, una ben accetta manifestazione dell’inesauribile vena creativa di Tsukamoto sensei fiaccata da quello che si potrebbe definire un (involontario?) scivolone revisionista, o forse solo un maldestro tentativo di dare senso universale a una tragedia i cui colpevoli, nonostante le smentite da parte governativa, sono in realtà ben noti – e riposano oggi nel tempio più venerato del paese, ben lungi da qualsivoglia damnatio memoriae.