Kim Ki-duk è uno di quei registi che ha sempre appianato le divergenze tra scuole di pensiero differenti e messo d’accordo un po’ tutti, sia nel pubblico che nella critica (sempre che quest’espressione antinomica significhi tuttora qualcosa). È stato necessario attendere fino al 2011 (anno dell’incidente e di Arirang) per poter vedere delle crepe crearsi nell’opinione comune, raramente così compatta nei confronti di un autore. Di tale communis opinio siamo parte tutti, chiaramente, chi scrive certo non commette l’errore di volersi tirar fuori, anzi, coglie l’occasione per associarsi al giudizio più o meno unanime venutosi a formare negli ultimi sette o otto anni: Kim Ki-duk è in fase calante. E questo Human, space, time and human (distribuito anche con il titolo di Time of humans) non può che confermare quest’assunto di base, deludendo la Berlinale per la seconda volta in un breve lasso di tempo a braccetto con Stop/Seu-top.

E se possiamo certo discutere sulla riuscita o meno di film come Moebius o One on one, sembra operazione piuttosto complessa provare a non vedere come il film in questione dia il la a una chiara involuzione da parte del regista coreano, il quale per l’occasione – il periodo è quello del Carnevale – si traveste da von Trier e si prende qualche critica così, tanto per. Certo i tropi di umanità che Kim ci mostra non rispecchiano un cosmo che tenga conto delle più basilari forme di rispetto, figurarsi delle sensibilità contemporanee, ma interpretare quell’anziano muto come un giustificatore della bruttura in nome di un bene superiore e paternalistico ci pare più un efficace indicatore di una scarsa comprensione del film. E sì che Human, space, time and human non ha un indice di complessità così elevato, riprendendo la sempreverde circolarità orientale che trapassa in unità fondamentale di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, all’interno della rappresentazione di una sorta di ennesima rinascita dell’umanità, di un passaggio dall’oscurità alla luce che trova il proprio locus della maggior parte dei propri simbolismi nell’immaginario della seconda guerra mondiale.

Il microcosmo del film non è una casa, una prigione, o un’oasi montana baciata dal sole, ma una vecchia nave da guerra che come una perversa Arca di Noé sembra dover traghettare, nel mare prima e nel cielo poi, gli ultimi reduci del genere umano, verso un nuovo futuro passando obbligatoriamente per un’infinita fase di umiliazione e sofferenza. Il nostro mette in scena uno spazio isolato e altro che diviene presto una riproposizione dello stato di natura nella sua forma più feroce, dove il sopruso è il valore fondante di una piccola comunità che è al contempo fine e inizio di una nuova umanità. Forse. E tuttavia Human, space, time and human non convince, e non lo fa perché è troppo didascalico, troppo dissociato, troppo ruffiano.

A Kim non interessa nemmeno l’analisi del mitologema del diluvio, che sarebbe stato il suo ideale punto di partenza in un film vero, che fosse foriero della volontà di provare a comunicare qualcosa, ma questo è un film pigro: un presupposto del genere pone da sé le basi per instaurare la consueta riflessione oscillante tra i concetti fondamentali del pensiero orientale e una mise puramente simbolica mutuata dall’iconografia occidentale. D’altronde saper fondere elementi dell’una e dell’altra dottrina è quanto gli ha garantito ammirazione e un certo successo (trai registi asiatici rimane comunque trai più distribuiti). E tuttavia il nostro non va in questa direzione ma si accontenta di chiarire la struttura e i livelli delle metafore nella prima parte, far volare la nave nella seconda – la meno riuscita – e provare a tirare le fila nella terza, dilatando i tempi vagando un po’ a vuoto tra un un’inquadratura e l’altra, raccordate da un montaggio insolitamente frenetico che cela solo parzialmente un alone di indecisione che non abbandonerà mai la pellicola.

Tant’è che basta il primo segmento per rendersi conto di essere di fronte a un film apertissimo, catalogico, e senza sfumature. Una miriade di personaggi più o meno monodimensionali occupa con la propria presentazione la prima mezz’ora abbondante di film, un’umanità perlopiù avariata su cui svettano esemplificazioni di uomini politici, forze di polizia, potenti o prevaricatori, proletari, anime rassegnate, furbetti viscidi ansiosi di conquistarsi un posto al sole e approfittatori, il cui scopo è replicare su scala ridotta e semplificata un mondo – il mondo – che non funziona, la cui struttura è compromessa al vertice. Ma la loro monotematicità non è dettata dalla funzione allegorica, e si rivela povera, senza sfaccettature appunto, cioè incredibilmente diretta. Non ci sono veli o preziosismi da cogliere, così come non c’è lo spazio per intuizioni o interpretazioni: Kim ci accompagna in quella che sembra una visita a un museo soffocato dalla fiumana turistica e dal calore estivo, la sua mdp conserva la propensione al racconto di una audioguida multilingua, ci indica (quasi letteralmente, emulando la sensazione di rozzezza che accompagna il gesto) nel giusto ordine i tasselli del suo mosaico; che già poi la metafora di fondo non è certo originale, sottolineata così finisce per sfociare nella volgarità – e fa specie, perché se c’è una cosa che riconosciamo tutti al regista coreano è l’eleganza.

In questo esplicitazione costante che delude e ricorda involontariamente alcuni film degli anni 2000 di Allen e che sembrano confezionati su ordinazione da un imitatore piuttosto che dal regista stesso, si fanno tuttavia strada una serie di tematiche abbozzate e poi mollate, affastellate l’una sull’altra un po’ come si butta carne al fuoco, confidando nella quantità piuttosto che nella qualità. Human, space, time and human spazia dall’ecologismo al fardello degli ultimi, dalla ricostruzione di una seconda natività a (spicce) riflessioni sulla globalizzazione, da attacchi politicamente più mirati (Giappone) a scivolate naïf piuttosto evidenti; l’idea del bel bambino che sarà il primo abitante di un futuro radioso frutto degli ultimi retaggi della violenza, riportando poi a galla quella che è una netta bipartizione etica tra uomini veri che guardano al futuro e mostri che sono attenti a conservare il presente a specchio del passato, non sarà misogina o retrograda ma sempliciona sì, eccome se lo è. Così una rigida impostazione dei personaggi e delle loro funzioni, rigorosamente catalogate, fa da contraltare un pandemonio di idee e spunti senza soluzione di continuità, un elenco puntato di argomenti da toccare quando si parla del film.

In definitiva, l’idea che rimane è quella di un film ruffiano, non dissimile dal lascito di quel The net che la laguna fece presto a dimenticare: si tratta di un’opera non dissimile dallo spirito dal più becero dei blockbusteroni, ovverosia non si pone altro obiettivo se non quello di compiacere un ideale spettatore, che in questo caso è colui che frequenta abitualmente i festival e apprezza il cinema con queste caratteristiche precipue, dandogli metafore e simbolismi su cui dilungarsi in uno di quegli articoli/spiegoni (che anche qui a NSC non disdegnamo, quando opportuno). Sia chiaro, la qualità complessiva rimane di tutt’altro livello, permane il fine: conquistare facile riconoscimento, che non sempre deve misurarsi al botteghino. E se qualche sprazzo nel terzo scaglione, Time, può far sperare in una ripresa, almeno futura, con qualche quadro ben riuscito e qualche ragionamento portato a termine con coerenza, la conclusione dello stesso segmento, accompagnata dall’epilogo che poco aggiunge se non una chiosa più che altro di forma, fa sprofondare di nuovo Human, space, time and human nella pochezza che abbiamo cercato di raccontare in queste righe. Didascalico, dissociato, ruffiano, come sopra. È davvero un peccato vedere autori di un certo calibro ridursi così, e se questo è uno dei casi in cui è la direzione artistica del festival a chiamare il regista “ordinando” un film, allora la prossima volta, che si inventi una scusa, o si dia malato.