Michelangelo Frammartino è un regista estremamente particolare. Anzi, prima di essere un regista è forse un video-artista, e prima ancora certamente un teorico del cinema. La sua poetica, sebbene facilmente accostabile al cinema contemplativo contemporaneo, con esso ha poco o niente a che fare. Ne condivide in parte magari la lentezza, a tratti l’interesse per il paesaggio, la complessità speculativa celata dietro l’austero rigore tecnico, ma certo non la necessità di staccarsi dalla rappresentatività (anche se questo è un discorso più articolato). A non a fermarsi all’apparenza si impara da bambini, ogni tanto provare a fare una contestualizzazione un po’ più precisa non sarebbe male. È per questo che lo stupore generale all’annuncio de ll buco nel concorso ufficiale della 78esima Mostra di Venezia si è protratto così a lungo, almeno fino alla proiezione del 3 settembre che ha fugato i dubbi di cui sopra, in un senso o nell’altro, su questo oggetto misterioso.
Calabria, Parco del Pollino. In una zona periferica del parco si apre una fenditura infernale sul suolo, profonda circa 700 metri. È l’abisso del Bifurto: il protagonista indiscusso, con i suoi vicoli ciechi e le sue oscurità, del film. Nel 1961, nel pieno del boom economico italiano, mentre lontano da quell’isolata area rurale venivano prese decisioni che ne avrebbero stravolto il profilo, una spedizione speleologica di pochi uomini si infilava in una delle grotte più profonde della terra, in una sorta di metaforica reazione di verticalità inversa alla diffusione del modello metropolitano dei grattacieli. Non a caso il film inizia proprio con un servizio televisivo found footage sul lavaggio dei vetri di un palazzone milanese.
Dopo ll dono e Le quattro volte, il terzo lungometraggio del regista calabrese riguarda comunque la sua terra d’origine. Più composito del primo ma lontanissimo dalla meccanicità del secondo, Il buco è però il film che meglio rivela le basi del suo autore, mutuate da quella peculiare modalità videosinfonica e dalle idee del suo “fondatore” Franco Piavoli, prima fra tutte quella della convinzione di poter fare cinema senza dialoghi, utilizzando il suono in maniera del tutto differente, elevandolo alla stessa altezza dell’immagine per evocare sensazioni e raccontare una storia anarrativa ma sensorialmente rilevante. Anche l’opera terza di Frammartino insiste sulla sensorialità, prima di tutto abiurando la parola dalla sceneggiatura, ci sono soltanto i richiami riecheggianti di un pastore, gli speleologi che si aggrappano alle rocce e il suono del vuoto.
La sensorialità è fruibile soltanto all’interno di una sala cinematografica, altrimenti si rivela impossibile percepire la potenza evocativa di quella semplice forra nel terreno. Frammartino ha infatti portato un impianto Dolby Atmos a una profondità massima di 400 metri (unicum assoluto nella storia del cinema) per offrire una visione/ascolto di un’etnografia altrimenti non esperibile, potenziata dal gioco di contrasti tra volti, varchi nella roccia sotterranea e vuoto cosmico della campagna calabrese.
In fondo che cosa deve concernere un film intitolato Il buco se non il vuoto? Il vuoto di un villaggio abbandonato dal paese, il vuoto del disinteresse generale per la scoperta e per la natura, il vuoto (postumo) del boom economico, il vuoto di un fenomeno di portata stupefacente. Tutto questo parossistico ammasso di assenza viene analizzato nella sua staticità, in un contesto di inamovibile potenza naturale dove immagine e parola – i due momenti estatici del cinema – si configurano da pari a pari e non funzionalisticamente l’una rispetto all’altra. È il profilo della bocca della grotta a definire il paesaggio, così come è il vento che produce strani suoni sfiorandone i bordi a parlare più della popolazione locale. Frammartino chiede tanto e quel che restituisce non è sempre altrettanto, nel suo piccolo forse richiede anche più pazienza visto che il risultato appare chiaro solo alla fine, quando le varie suggestioni si uniscono e formano un amalgama unitario di complessità non immediatamente rilevabile, anzi (come la disparità fisica tra Nord e Sud, la tensione fra il misurato e l’ignoto, il dominio umano e la refrattarietà a esso dei fenomeni naturali, il gioco di contrasti insistito con fotografia e montaggio tra luce e buio, e via andare).
E Il buco è un film sulla rappresentazione, sull’esperienza cinematografica nel suo farsi: il Bifurto è una primordiale sala cinematografica, non-luogo naturale della meraviglia, più che una caverna platonica. Di nuovo con un simbolismo esplicito infatti il film si conclude quando uno speleologo-cartografo senza volto disegna la fine dell’ultimo cunicolo della grotta su una mappa. Il fascio di luce che squarcia il vuoto del baratro potrebbe assomigliare sinistramente a quello di un proiettore che trasforma un buco buio stipato di persone in una sala cinematografica vera e propria, rimarcando come questa sorta di bignami del viaggio al centro della Terra verniano sia in realtà una catabasi nell’abisso della fantasia umana, che da sempre, attraverso il cinema (e non solo, ovviamente, ma in questa sede al cinema siamo interessati) crea storie. D’altronde che cos’è Le quattro volte se non un grande lezione allegorica sui cinèmi pasoliniani, le parti che compongono il meccanismo filmico? Il buco è sua diretta prosecuzione, più concettuale eppure meno articolato, e ne rappresenta il completamento mentale: insomma due lati della stessa moneta, ma uno è quello conscio – Le quattro volte con la sua cerebralità e il lavoro manipolatorio sulle immagini – e l’altro è l’inconscio che ribolle – ovvero Il buco, imperniato sulla violazione delle leggi come tempi e spazi, deformati e decostruiti, perché ospitato nello spazio dell’entroterra più letterale, quello dove l’assenza di luce e suono permette alla fantasia di scorrere libera e di acquisire poi forma (che poi è l’esperienza primigenia dell’anche solo provare a fare arte).
In breve, si potrebbe parlare, come tra l’altro fa lo stesso Frammartino (che così a occhio sembra uno che qualcosa ne capisce, pare), di un “cinema carsico“, che scorre sotto e forse anche “prima” di altri. Nel concorso di Venezia 78, all’interno della validissima morsa formata da una cinquina di film italiani variegata e di alta qualità, Il buco si distingue in maniera manifesta: è uno sguardo fresco sul come intendere l’avventura filmica, un qualcosa che afferma un indefinito differente e parla tantissimo nonostante i silenzi, nonché un lavoro limpidamente affascinante in virtù della profondità d’analisi. Da intendersi in tutti i sensi possibili, meno quello più banale, ovviamente.