Il pescecane di Brecht secondo Alvise Camozzi

«Se i pescecani fossero uomini sarebbero più gentili con i pesciolini?»

Questa è la domanda che interroga il pubblico del Pessecàn, liberamente tratto appunto da Se i pescecani fossero uomini di Bertolt Brecht da Alvise Camozzi, e visto recentemente in una cornice spettacolare come il cortile dell’Hotel Aquarius, a San Giacomo dell’Orio.

Che poi «liberamente tratto» non è neanche l’espressione giusta, dato che il pensiero del grande drammaturgo tedesco resta lì, immutato, anche se il testo è trasposto in salsa lagunare. Siamo a Venezia, dove approda un pescecane che si mangia tutti, pesci e malcapitati. È vecchio, stanco e maleodorante, ma è pur sempre un pescecane. Bisogna averne timore reverenziale. Stupisce, con il suo arrivo inatteso (ma gli squali arrivano sempre a tradimento), il variegato mondo di un quartiere cittadino. C’è il protagonista (ammesso che non sia proprio il pessecàn il protagonista), che è un ragazzino. C’è una sua coetanea, un po’ più su socialmente, c’è un professore (nei sestieri della città c’è sempre un ‘professore’ che nessuno sa bene cosa faccia o abbia fatto, ma per tutti è il profesor). E c’è la vasta umanità concentrica che guarda, tra il curioso e l’intimorito, questa ingombrante e inedita presenza. Il timore la fa da padrone, ma l’animale predatore sembra saperla lunga sulla vita, si vede che ne ha passate tante. E la domanda iniziale ritorna costantemente. Brecht sapeva bene la risposta, anzi provoca intenzionalmente chi ascolta a dissolvere il dilemma: non sarebbero più gentili, i pescecani, se fossero uomini? Un tema attualissimo.

Alvise Camozzi è un poeta della scena: attore, regista, drammaturgo, nato nel più profondo di Castello, vale a dire il nocciolo lagunare più antico, ha vissuto per vent’anni in Brasile, divenendo un artista di punta, nelle varie sue fattispecie, in quel grande e lontano Paese. Tornando a Venezia, si è reimpossessato delle sue origini, senza dimenticare i tanti orizzonti che ha attraversato, a partire dalle scuole ‘alte’ alla Paolo Grassi di Milano. Con El pessecàn ci regala uno sguardo cinico (quello di Brecht) ma lo addolcisce di tenerezza nei confronti di una Venezia dei mestieri e dei lavoratori, che non si intravede quasi più. La traduzione in dialetto è talmente espressiva che la comprendono anche i ‘foresti’, appiccicati a guardare un leggio che diventa mondo, con sguardi spiritati e narrazione insuperabile. Nel suo cammino affabulatorio lo accompagna il superbo violino di Sokol Prekalori, un musicista di fama che dialoga con le parole. Suoni e battute sembrano provenire da uno scambio artistico sapiente.

Rimane però la domanda: se fossero uomini, sarebbero più gentili con i pesciolini, i pescecani?