Secondo lungometraggio della serata inaugurale del FEFF19 è stato l’unico film in concorso per la Cambogia, Jailbreak, un action a base di arti marziali e acrobazie per la regia di Jimmy Henderson, italiano che da più di 6 anni opera con questo nome d’arte nel cinema del Sud-Est asiatico.
Il famoso criminale Playboy – Savin Phillip – è stato catturato dalla polizia ed è pronto a rivelare alle autorità l’identità del capo delle Butterfly, una gang particolarmente temibile. Data l’importanza del teste, quattro poliziotti vengono scelti per fargli da scorta durante il trasferimento in carcere. La missione sembra semplice ma le Butterfly si sono già mosse e, infiltratesi nella prigione, hanno dato il via a una rivolta per uccidere Playboy prima che parli. Braccati da orde di detenuti inferociti, starà a Dara, Jean-Paul, Tharoth e Sucheat farsi strada verso l’uscita a suon di pugni cercando di garantire allo stesso tempo l’incolumità del testimone chiave.
Diversi sono i punti di contatto con The Raid (2011) di Gareth Evans, tanto che secondo alcuni Jailbreak sarebbe più un omaggio al capolavoro indonesiano che non una creazione genuina: ritroviamo infatti l’ambiente claustrofobico e sordido, il succedersi dei combattimenti secondo una logica che potremmo definire “videoludica” – con boss di fine livello che attendono i nostri eroi alla fine di ogni ondata di nemici – e un inaspettato tradimento che sarà lavato nel sangue.
Tuttavia, per quanto sia indiscutibile il debito nei confronti dell’opera di cui sopra, alcune trovate rendono la pellicola di Henderson un fiore all’occhiello non solo del neonato cinema cambogiano ma del genere action tout court. L’arte marziale praticata è il bokator, forse meno fulminea rispetto al silat ma le cui coreografie non hanno nulla da invidiare all’omologa indonesiana: nella frenesia di calci e pugni la macchina da presa, dinamica eppure precisissima, non perde di vista un secondo le mosse degli interpreti, regalando anche qualche soggettiva che trascina lo spettatore nel bel mezzo della mischia.
Interessante inoltre la scelta di dare particolare rilievo ai personaggi femminili, ancor più inconsueta se pensiamo al cinema d’azione tradizionale dominato dal machismo. Raramente si incontra un’eroina del calibro di Tharoth – vero nome di battesimo dell’attrice e atleta Tharoth Sam –, in grado di mettere K.O. a mani nude decine di aggressori come di rimediare alla codardia dei suoi colleghi maschi, che spesso si danno per vinti o addirittura rifuggono la battaglia. Che dire poi delle Butterflies, una banda di donne bellissime e letali che, al seguito della loro boss armata di katana – interpretata da Céline Tran –, faranno un’entrata spettacolare che strizza l’occhio a quella dei tarantiniani 88 Folli?
Infine, grazie ai siparietti comici offerti da Playboy e dagli altri carcerati, il film evita di prendersi troppo sul serio e ridicolizza gli stereotipi tipici del genere, rivelando la grande autoironia degli autori: una scelta di sceneggiatura che rappresenta un’evoluzione rispetto a The Raid, che invece sguazza consapevolmente nei cliché a favore della pura spettacolarità, in una tensione continua che non concede momenti di evasione.
Inutile dire che Jailbreak ha tutte le carte in regola per diventare un titolo di culto nell’ambito dei film di arti marziali orientali. Dispiace soltanto che, probabilmente per motivi di budget, non sia stato possibile vedere le Butterflies in azione né le medesime vette raggiunte a suo tempo da Evans con gli stunt.