A oggi uno dei candidati più auspicabili per il Leone d’Oro di quest’edizione, Khers Nist (No Bears) segna il quantomai necessario ritorno di Jafar Panahi dietro la macchina da presa come anche davanti alla stessa, in un’opera dove la componente metacinematografica non si misura con un discorso teorico circa i limiti del mezzo – limiti che, nella sua personalissima maniera, Panahi ha più volte confermato di voler ignorare, superandoli con la manifestazione del suo corpo autoriale al di qua e al di là dello schermo –, quanto sulla missione quotidiana del regista e dell’artista in senso lato, il quale, pur di fare arte, deve essere disposto a separarsi dalle sue estensioni macchiniche, dal suo campo d’azione, talvolta persino da se stesso. In Concorso.
Ritiratosi in un villaggio al confine con la Turchia per dirigere un film “a distanza”, che si sta girando appunto in territorio turco, Panahi viene inaspettatamente coinvolto in una diatriba circa un amore adulterino, del quale lui avrebbe la prova inconfutabile – una foto scattata alla coppia di amanti durante una delle sue passeggiate. Messo con le spalle al muro dai sospetti e dalle tradizioni dei locali, senza contare le vicende private della sua troupe al di là delle montagne, Panahi farà l’unica cosa che sa fare: continuare a girare.
Completato poco prima del suo arresto avvenuto in luglio, con l’accusa di aver partecipato alle proteste di piazza per la liberazione di due suoi colleghi cineasti, No Bears adombra per forza di cose lo spettro della reclusione – a cui Panahi ha dovuto purtroppo far l’abitudine – e dell’esilio all’interno dei confini nazionali, senza per questo ripiegarsi su se stesso e tradursi in una parabola autocommiserante sulla condizione degli intellettuali iraniani. Infatti, per quanto la descrizione del villaggio di montagna e della condizione di promiscuità delle zone di confine – controllate da trafficanti e forze dell’ordine corrotte, che Panahi all’interno del film spera di convincere a farsi riprendere – sottenda senz’altro la volontà di segnalare una certa mentalità retriva e farisea che caratterizza le zone rurali, quest’ultime non costituiscono il bersaglio polemico del regista, la cui autorappresentazione è anzi sempre genuinamente in sintonia con il popolo, a prescindere dall’estrazione individuale.
Pacato e disponibile a scendere a compromessi – benché non fino al punto di tradire il suo pensiero –, Panahi asseconda per quanto possibile i suoi interlocutori e ritorce contro di essi la loro stessa arma dialettica: come gli orsi che percorrerebbero il sentiero che il regista si appresta a imboccare sono solo una scusa per convincerlo a fare una deviazione e ascoltare il monito di un popolano, così l’apparato di tradizioni che il villaggio ha in tanta considerazione è un mero espediente per conseguire i propri scopi – che nella vicenda qui rappresentata sono il controllo e possibilmente l’espulsione dell’elemento estraneo, fatto capro espiatorio dei livori che serpeggiano nella comunità. E così sono orsi (inesistenti) su un sentiero anche le convenzioni di genere, di unità di tempo, spazio e azione, la distinzione tra mostrato e mostrante, tra chi dirige e chi recita, la cui rigidità – esattamente come quella dei giuramenti davanti a dio invocati dal capovillaggio – non rende giustizia alla complessità di una realtà sfuggente e che è sempre più difficile catturare, sulla quale si innestano i capricci e la volontà di chi lavora con le immagini.
Partendo da Panahi che, nella finzione del racconto scatta una foto nella direzione in cui si presume si trovino gli amanti ma, al di qua della cinepresa in quanto intelletto ordinatore, adotta un campo sufficientemente stretto per non far vedere il soggetto inquadrato – senza contare che nulla gli avrebbe impedito di cancellare la fotografia in seguito –, arrivando poi alla coppia protagonista del film d’ambientazione turca che davvero progettava di fuggire insieme all’estero, No Bears mette a nudo il suo stesso meccanismo diegetico e rappresentativo senza formalismi, invitando a liberarsi dei propri schemi e liberando l’autore stesso dalla sua condizione: di nemico politico, di carcerato, di corpo che deve necessariamente scegliere una delle due dimensioni del suo strumento di lavoro entro cui collocarsi.
Intimamente politico nel suo isolare completamente la vicenda dalla capitale Teheran e dalla politica che lì si decide, Panahi ci ripropone il suo volto bifronte di demiurgo bonario ma irriducibile nella sua ideologia – lo stesso a cui ci ha abituato dai tempi di Closed Curtain (2013) – che nella cornice di un angolo sperduto dell’Iran – non molto diverso per atmosfera e inquilini da quello visitato in Tre volti (2018) in compagnia di Behnaz Jafari – mette in scena la sua realtà, certo non meno conflittuale della nostra ma dove il ruolo del regista sembra ancora avere un peso: peso che l’Iran di Raisi e Khamenei preferirebbe probabilmente veder sparire del tutto e contro il quale sta mettendo in campo strumenti di repressione inauditi. Ma forse, alla fine, anche questi non potranno poi molto, come quei fantomatici orsi sul sentiero di montagna.