“Knight of Cups” di Terrence Malick

To the tree of Malick

Facendo dimenticare al suo pubblico il notevole numero di anni che trascorrevano fra un suo lavoro e il successivo, Malick ha presentato alla 65esima edizione del Festival di Berlino il suo terzo film in appena quattro anni.

Rick è uno sceneggiatore di successo e un uomo in crisi, che ha perso se stesso e si sente schiavo dalla vacuità della propria vita. Come imprigionato in una dimensione di eterna transitorietà, cerca di trovare una via d’uscita per raggiungere quella verità che non può vedere ma dalla quale percepisce di essere schiacciato.

Come nei due film precedenti, lo svolgimento narrativo canonico viene abbandonato per lasciare spazio al potere evocativo dell’immagine, che si esplica un unico flusso che questa volta ha come soggetto uno spaccato della vita del personaggio di Christian Bale, il cavaliere di coppe alla ricerca della sensazione di qualcosa che sia duraturo, che non sia solo polvere nelle sue mani. Questo flusso però, come mai prima d’ora, è interrotto. Il film è suddiviso in capitoli, i cui titoli derivano da carte dei tarocchi, il significato delle quali è in radicale opposizione con la carta eponima del cavaliere di coppe. Essa è simbolo di fantasia e genialità, di amore e spiritualità, ovvero ciò che il protagonista insegue per tutto il film senza riuscire a ottenere.

La sua vita si compone di episodi, nei quali si replicano gli incontri con il padre e il fratello, una base solida per Rick, che non gli offre nulla ma da cui non riesce a staccarsi temendo che lasciarsi alle spalle quella indistinta negatività che lo assale quando si relaziona con la sua famiglia possa astrarlo ancora di più dalla ricerca di identità e far scomparire anche quella solida terra da cui vorrebbe tanto staccarsi. Si replicano pure le donne della sua vita, sì differenti ma nessuna veramente dissimile dalle altre. In questo modo con ogni donna, con ogni amore, Rick tenta di incamminarsi lungo una strada diversa: la carta della luna, che rappresenta la diversità, e quindi Della (Imogen Poots) e una vita di ribellione; la carta del Giudizio Universale, che rappresenta il ritorno all’origine, e quindi Nancy (Cate Blanchett) e il ritornare sui propri passi. Nessuna di queste donne/scelte di vita simboliche però funziona, e Rick si trova intrappolato, ogni volta nello stesso modo, con la sgradevole sensazione di non aver mosso un passo in nessuna direzione. Non riesce a sfuggire alla movida losangelina e alla sua vacuità di feste, soldi, grattacieli e piscine.

Proprio le piscine sono uno dei due elementi che uniscono simbolicamente la carta che dà il titolo al film con la vita del personaggio di Christian Bale. L’acqua è infatti l’elemento-chiave da cui si originano tutte le caratteristiche prima citate del cavaliere di coppe. Le piscine sporche di coriandoli e del trucco disciolto delle donne che vi ci sono tuffate, godendo dello sfarzo e contribuendo a sporcare quel bacino acquatico agli occhi di Rick (lo vediamo dubitare nel suo intimo quando contempla la volgarità delle donne che lo circondano durante i party), non sono altro che la catena che imprigiona il protagonista nel mondo dal quale vuole fuggire: l’acqua sporca rappresenta il fango che copre quel limpido liquido in cui Rick sente di voler immergersi per depurarsi e risorgere come cavaliere di coppe, abbandonando la scalata al successo.

Di contro, questa purezza che gli sfugge viene rappresentata dal mare e dalla spiaggia che Rick calca con quasi ognuna delle donne di cui sopra. Il mare primordiale e limpido che il protagonista a malapena lambisce all’inizio con Nancy (i due camminano sul bagnasciuga separati e lontani emotivamente), ma nel quale si tuffa con puerile gioia con Elizabeth (Natalie Portman), la donna che lo porterà più vicino all’innalzamento tanto agognato, ma che non raggiungerà per il più tangibilmente banale dei motivi, ovvero il matrimonio di lei, che arriva allo spettatore in maniera così improvvisa e “anti-cinematografica” da stordirlo. In un mare magnum di simbolismi e focus sulla spiritualità, all’improvviso l’idillio si rompe per via di ciò che un personaggio dice, senza filtri, senza mediazioni registiche. Di nuovo un qualcosa di materiale che spezza il trascendentale.

Proprio l’elemento della carnalità, però, è ciò che diversifica Knight of cups dai precedenti due film del regista. Se al centro di The tree of life v’era la vita, nella sua massima generalità e in To the wonder il nucleo era l’amore, inteso come ciò che permette all’uomo di elevarsi quanto più possibile, in questo film Malick prosegue la sua climax discendente e va a indagare su ciò che giace sul fondo, sulla pura assenza di spirito. Rick ha bisogno di sfiorare con la mano ciò che lo circonda, per accarezzare qualcosa che gli ricordi che esiste un mondo intorno a lui. Questo però non gli basta, ha il continuo bisogno di guardare verso il cielo, verso l’alto, ma la sua aspirazione viene turbata di nuovo dalla materialità del contesto.

Il desiderio del protagonista è trascendere per arrivare a qualcosa di più profondo. Si interroga su come farlo, e subito ecco che un elicottero o un aeroplano, rumoroso e disturbante, gli ricorda che non c’è bisogno di alcuna trascendenza per toccare il cielo, contaminando anche quella sfera concettuale: il materialismo è come un bambino che non si accontenta mai. È in questo modo che la scena della contemplazione della statua del Buddha acquisisce significato. Rick sta chiedendo veramente una nuova vita, una reincarnazione. È intrappolato in una sorta di eterno ritorno che lo vede reincarnarsi ciascuna volta nello stesso uomo, uguale ma come senza memoria delle esperienze passate, sempre perso nella vacuità.

Il protagonista è quindi il personaggio più silente di tutto il film, ma al contempo colui la cui voce risuona più forte, manifestandosi in grida d’aiuto che solo lo spettatore può percepire. Tant’è che il voice-over, lontano dal risultato melenso a cui si potrebbe pensare, è nuovamente l’elemento principe del film, e va a condensare quel flusso che consiste nella continua ricerca di sé del protagonista. La post-produzione (durata circa due anni) ha avuto l’impatto più riscontrabile nell’esito finale, e soprattutto a livello di montaggio le scene si susseguono attraverso associazioni di idee e richiami visivi con un’armonia invidiabile; in fase di ripresa infatti le scene erano improvvisate, non c’era sceneggiatura, gli attori non sapevano nulla del senso generale del film e spesso non venivano date loro specifiche indicazioni per recitare.

Di nuovo la mdp di Malick va a toccare i personaggi, cogliendo le loro espressioni, per poi allontanarsi improvvisamente e lambirli da lontano, senza paura del movimento insolito e/o di una panoramica a schiaffo, che tuttavia riesce a non far percepire mai la presenza del regista. È un approccio tecnico che si sposa perfettamente con la fotografia basata sulla luce naturale di Lubezki, che conferisce al film la capacità di incunearsi nella mente dello spettatore, tanto da fargli considerare naturale la pura artificialità del cinema magistralmente calibrata dal regista, e che riesce ad astrarre la capacità critica di chi guarda guidandola verso la separazione del film dal contesto. In questo modo lo spettatore esclude subito il legame tra la città del cinema (la Los Angeles tanto cara a Lynch) in cui il film è ambientato e il film stesso, eliminando così il rapporto cinema/realtà e nullificando il mezzo-cinema nel momento stesso della visione.

In conclusione, Knight of cups è la perfetta continuazione della piega autoriale presa da Malick negli ultimissimi anni, però d’altro canto questo è il terzo film all’insegna di quelli stilemi che hanno reso così riconoscibili gli ultimi due e che hanno conferito la popolarità attuale a The tree of life. Il film in sé è indubbiamente pregno di significato e aggiunge un tassello importante al mosaico malickiano, però non si può negare l’impressione di trovarsi sempre di fronte allo stesso film: stessi temi, stessi metodi di comunicazione; pertanto, lo spettatore necessita di lasciarsi andare senza soffermarsi sull’effettiva ripetitività della pellicola. Non si può far altro che sperare che Malick non resti imprigionato in questo stile come Rick è rimasto prigioniero della dimensione di eterna transitorietà della sua vita.