“Koca Dünya” di Reha Erdem

Presentato nella sezione Orizzonti della 73a Mostra di Arte Cinematografica di Venezia, Koca Dunya è il nono lungometraggio del regista turco Reha Erdem, distintosi soprattutto per la partecipazione al Festival di Berlino con il film Kosmos, nel 2010. Koca Dunya (letteralmente “un mondo grandissimo”) è un dramma intenso che verte su temi come la famiglia, l’abbandono e la ricerca della figura paterna e materna.

Ali è un ragazzo di appena vent’anni, orfano di entrambi i genitori, che vive con altri ragazzi in un appartamento in una grande città. Nella stessa città vive Zuhal, una ragazza di 15 anni, anche lei orfana ma adottata da una famiglia, che Ali ritiene essere la sua sorella di sangue. Dopo aver sottratto la ragazza alla famiglia con incredibile violenza, Ali si rifugia in un bosco non lontano da un piccolo villaggio. Qui comincia a lavorare in un’officina, conosce la prostituta Falci e comincia a lasciare la sorella sola nel bosco per sempre più tempo. Quando altri personaggi cominceranno ad affacciarsi nel bosco dove sono nascosti i due fratelli, la storia inizierà ad avere risvolti drammatici.

Anche senza conoscere l’autore, è facile capire che Erdem sia un regista esperto con una padronanza del mezzo cinema tale da permettergli di trasformare una trama all’apparenza semplice in un lungometraggio complesso e pieno di significati. Il tema principale di Koca Gunya è, come si può capire da un riassunto della trama, quello della famiglia e dell’identità famigliare: fino alla fine infatti non sarà mai del tutto chiaro se Ali e Zuhal siano veramente fratelli, e a prescindere dalla natura del loro rapporto di parentela l’autore del film sembra voler punire l’atto di violenza con cui Ali ha sottratto la ragazza alla sua famiglia (che, di sangue o adottiva che fosse, era pur sempre la sua famiglia), mostrandoci il progressivo peggioramento della salute fisica e mentale della piccola Zuhal, trascurata dallo stesso ragazzo che aveva ucciso pur di prenderla con sé.

Il tema della ricerca della figura paterna e materna poi riemerge quando prima Zuhal e poi Ali si rivolgono ad una capra, animale solitario e abituato alle condizioni più estreme che quindi simboleggia l’indipendenza e la solitudine, chiamandola “papà”, in un disperato tentativo di ricerca di una figura genitoriale. All’interno del film poi diversi personaggi utilizzeranno appellativi come “papà”, “mamma”, “zio” e zia” apparentemente a sproposito, in un continuo richiamo a una società in cui la struttura familiare è, almeno secondo l’autore, stravolta e messa in secondo piano.

A dare questo senso di abbandono e angoscia poi si aggiunge un montaggio a tratti disorientante, con stacchi bruschi da una scena all’altra, e una regia che predilige lunghe panoramiche in cui i soggetti sembrano abbandonati al centro del paesaggio. Per quanto riesca ad esprimere perfettamente il suo messaggio però, Erdem realizza un film che, per il tema trattato e per la trama quasi minimalista, risulta incredibilmente pesante e non di immediata comprensione.

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