Presenza cara al festival veneziano – tra i primi a riconoscerne il talento e a premiarlo di conseguenza, con il Leone d’Argento per Ferro 3 (2004) e quello d’Oro per Pietà (2012) poi – la cui scomparsa nel 2020 ha lasciato un grande vuoto nella scena cinematografica internazionale, Kim Ki-duk è tornato sugli schermi del Lido Fuori Concorso con Kõne taevast (Call of God), film assemblato dai più stretti collaboratori dei suoi ultimi anni – tra cui spicca il regista estone Arthur Weber, a cui si deve anche il completamento effettivo del film – sulla base delle note di regia e di montaggio lasciate dietro di sé. Un’operazione che, per quanto certamente mossa da nobili intenti, appare in una certa misura necrofila, una forma di accanimento cinefilo sul corpo-autore di un regista la cui crisi creativa era già conclamata da almeno una decina d’anni, e che qui si mostra senza attenuanti.
Svegliata dalla telefonata proveniente da un numero sconosciuto, una ragazza – Zhanel Sergazina – è avvisata dalla voce all’altro capo del filo che incontrerà un uomo che la farà innamorare. Sulla strada di casa, costui – Abylai Maratov – appare, innescando una catena di eventi che la porteranno a essere sempre più attratta dal misterioso estraneo. Tuttavia, si accorgerà presto che la relazione non è tutta rose e fiori come sembrava: tra violenze, gelosie e tradimenti, la sfortunata protagonista dovrà fare del suo meglio per non rimanere sopraffatta, sempre più incerta del confine tra realtà e sogno.
Accompagnato dalle critiche di associazioni femministe e giornalisti che, in patria, si opponevano alla sua presentazione a Venezia, Call of God è stato da alcuni addetti ai lavori erroneamente etichettato come opera-testamento, proiettando su di esso un’aura di venerabilità tale da scoraggiare in partenza un approccio oggettivo ai limiti della pellicola. Iniziamo dunque col dire che questa è solo e soltanto un film postumo, al quale il regista non può avere affidato, sul piano del significato, alcuna ultima volontà, e come tale deve essere pertanto interpretato.
Finendo, per un amaro scherzo del destino, a ripercorrere le traiettorie dei suoi protagonisti in fuga dai propri trascorsi – come quelli de L’isola (2000) o ancora Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003) –, Kim ha girato Call of God tra Estonia, Lettonia e Kirghizistan – stato, quest’ultimo, che ospita una radicata minoranza coreana, deportata nel paese da Stalin alla fine degli anni Trenta –, nel bel mezzo dell’esilio volontario per cui aveva deciso di optare, sfuggendo alle accuse di molestie sessuali e abuso di potere, nonché di una crisi esistenziale testimoniata non solo dai suoi collaboratori, ma ben prima dal documentario-confessione Arirang (2011), anticamera del grande successo che avrebbe partorito di lì a un anno ma, anche, della crescente autoreferenzialità della sua filmografia.
In questo senso, Call of God è appunto un ritorno su temi precedentemente esplorati – in particolare, la natura bestiale e stravolgente dell’eros, e l’espiazione dell’amore stesso in quanto colpa – troppo pedissequo anche per essere definito un omaggio a se stesso: è, piuttosto, un ragionare senile sul potere terribile degli istinti, sul senso di liberazione derivanti dall’immaginare – e di conseguenza immaginarsi, in una prospettiva personale – corpi più giovani e inesperti, dove la violenza che ne consegue è perdonata dallo sguardo indulgente di un vecchio artista.
Anche volendo tralasciare la fondamentale inadempienza della pellicola agli standard di qualità a cui Kim stesso aveva abituato il pubblico, cominciando con l’utilizzo quasi amatoriale della macchina da presa, passando per la performance attoriale dilettantesca e chiudendo con l’incoerenza dei dialoghi, resterebbe comunque poco da salvare, dal momento che, come già in Human, Space, Time and Human (2018), dove l’eccesso narcotico e sessuale insistentemente mostrato serviva a dissimulare una più generale mancanza di bussola dell’opera, Call of God non tiene fede alle sue promesse di trascendenza.
La “chiamata di Dio”, nella specie delle telefonate anonime ricevute dalla protagonista, non conduce a nessuna rivelazione, né per quanto concerne l’esplorazione del territorio dell’eros – senza mai veramente descrivere il potere reciproco che i rispettivi corpi esercitano sugli interpreti – né sul piano della ricerca di una verità più alta, dacché il sogno – o premonizione, a quanto possiamo intuire – non lascia traccia al momento della sua dissoluzione – segnalata dal passaggio dal bianco e nero al colore –, suggerendo l’inizio di un circolo vizioso il cui unico esito possibile sarà l’autodistruzione.
E tale sembrava essere la china presa da Kim nell’ultima fase della sua produzione, ossessionato com’era dal peso della sua stessa reputazione che, con tutta probabilità, non riusciva più a reggere il confronto con il reale potenziale creativo rimasto a disposizione. Pertanto, se davvero vi fosse stata una pur minima intenzione di porgere i propri rispetti al regista e tutelarne la memoria, la cosa migliore da fare sarebbe stato astenersi da simili pratiche di riesumazione archivistica, lasciando quel girato, ancora privo di una forma aggregata e intellettualmente compiuta, all’interno degli hard disk in cui era contenuto.