Ci sono spettacoli che vanno rivisti, altrimenti se ne perde il senso più nascosto, l’essenza che ne è alla radice. Uno di questi è certamente La morte ovvero il pranzo della domenica, drammaturgia e regia di Mariano Dammacco per l’interpretazione di Serena Balivo, visto in prima assoluta a Castrovillari, durante il festival Primavera dei Teatri (curato come sempre al meglio dal magico terzetto LaRuina-De Luca-Pisano), e poi anche a Mirano alle Scene di Paglia dirette come sempre da Fernando Marchiori.
La scrittura di Dammacco è al solito soltanto apparentemente lineare. La prova lampante è l’effetto che la pièce ha suscitato nei due diversi pubblici: in Calabria le risate non si contavano, nel veneziano l’attenzione era più concentrata sul racconto. Esiti, entrambi, assolutamente legittimi e anzi si potrebbe dire complementari.
Ci si trova di fronte a un tema per così dire universale: la morte degli affetti più cari, in questo caso padre e madre. Più che la morte, in realtà, è indagato il suo inesorabile avvicinamento, descritto da una figlia ormai anche lei in età, che puntualmente ogni domenica si reca a pranzo dagli anziani genitori. Il banchetto è cadenzato da precisi e predefiniti momenti nei quali è appunto la morte la protagonista assoluta, vista, considerata e commentata da molteplici e talvolta contraddittorie angolazioni.
Lo strepitoso mascheramento di una davvero bravissima Serena Balivo (Premio Ubu 2017 come miglior attrice under 35), forse alla sua prova migliore, ci mette davanti agli occhi una personalità nevrotica, che si suppone disintegrata dalla solitudine, caratterizzata da tic e movenze emblematiche e subliminali: è lei che ci racconta questo convivio grottesco e surreale, sin dal momento del suo arrivo in macchina, con il parcheggio perfetto e mamma e papà in ansiosa attesa in piedi davanti al balcone. Ciò che più colpisce, perché appartiene a tutti, è la quotidianità familiare del contesto, un appuntamento fisso delineato con precisione maniacale dalla coppia genitoriale. Una messinscena a uso e consumo dell’unica figlia, che non si sottrae alla ritualità con cui i diversi piatti vengono sapientemente serviti, alle pause necessarie e irrinunciabili in cui viene proposta una selezione musicale, esclusivo appannaggio del padre. Lo spettacolo è talmente ben congegnato in ogni sua parte che effettivamente più di una volta si è indotti alla risata, chissà se più liberatoria o apotropaica. Fatto sta che le argomentazioni più diverse vanno sempre nella stessa direzione, l’incipienza irreversibile della fine (anche se, in fondo, non è del tutto velleitario immaginare che tutta la narrazione avvenga a quo, cioè a dipartita già avvenuta, dato che la figura in scena campeggia solitaria seduta in una tavola da pranzo).
Nel corso dei poco più di sessanta minuti della performance abbiamo modo di scoprire le rispettive personalità dei due anziani: uno febbrilmente dedito a catalogare e incasellare la propria e l’altrui vita così come per molti anni gli è toccato fare nelle giornate in ufficio. L’altra una cuoca provetta, che si tiene in contatto con l’esterno attraverso la televisione («Sta nel mondo la mamma, continua a frequentarlo, ora lo riceve a domicilio», dice il testo). L’attrice, come già accennato, ha un incedere studiato e innaturale, che ha il potere di immettere immediatamente lo spettatore dentro il flusso narrativo ed emotivo, conducendolo per mano negli intricati meandri mentali che accompagnano chiunque nel pensare alla morte e alla perdita insanabile che essa arreca. Con la sigaretta sempre in mano e mai accesa, Serena sembra quasi voler indicare l’atemporalità di un rituale macabro e allo stesso tempo in qualche modo rinfrancante.
Non bisogna però farsi ingannare dall’apparente levità del tutto. Dammacco e Balivo in realtà ritraggono un’esperienza che appartiene a ciascuno di noi, in modo dolente seppure ironico, come sempre fa la loro Piccola Compagnia. Descrivono il momento del distacco, lo proiettano in un aldilà molto laico, che sembra assumere contorni onirici e immaginari. Come la speranza – coltivata con scientifico ardore dai due anziani – di andarsene insieme, nello stesso momento, o a pochi istanti di distanza l’uno dall’altra, e auspicabilmente senza soffrire. È davvero sorprendente come il duo Dammacco/Balivo riesca a imbastire a teatro una riflessione per nulla consolatoria sull’esistenza e i suoi ultimi contorni, in un tessuto verbale e scenico che ha la forza di un saggio scientifico. Così alla fine la figlia se ne va, il pranzo della domenica si è concluso. Riprende la sua auto e – come in un copione perfettamente cesellato – il padre e la madre la salutano dalla finestra. Un grande spettacolo.