“La Dea Fortuna” di Ferzan Özpetek

Ha due anime il nuovo film di Ferzan Özpetek; la prima guarda ai suoi successi precedenti (Le fate ignoranti, La finestra di fronte, le parti migliori di Saturno Contro), prende quei sentimenti là narrati e li evolve con umanità e tenerezza, scanditi dal tempo e dall’età; la seconda è più fiabesca, entra in scena la cattiveria del mondo, rappresentata da una anziana arcigna, ed ha la pecca imperdonabile, per come rappresentata, di far perdere l’equilibro al La dea fortuna.

Ferzan Özpetek dirige Edoardo Leo (mai così bravo), Stefano Accorsi, Jasmine Trinca e tutti gli altri attori, nel pieno della forma, perfetti in scena, con l’affetto dell’osservatore che partecipa sempre, ma resta in disparte. Ci sono le sue terrazze, ci sono tavole imbandite, c’è un’umanità viva e folle.
Leo, Alessandro, idraulico, Accorsi, Arturo, traduttore e storico, sono una coppia da oramai quindici anni, si conoscono bene, si sono perdonati e si perdonano scappatelle, ma la passione folgorante dei primi tempi si è trasformata in un legame stretto che sta stritolando entrambi, un legame che non sanno come affrontare. Vivono in un appartamento con una bella terrazza che si affaccia su un cortile interno dove negli altri appartamenti vive quella che è la loro famiglia allargata: basta chiamarsi dal terrazzo per comunicare.

Quando una loro carissima amica, Annamaria, la stessa che anni prima li aveva presentati, lascia loro “in affido, i suoi due figli (Martina – Sara Ciocca; Alessandro – Edoardo Brandi) perché deve essere ricoverata in ospedale per alcune analisi molte serie, Alessandro e Arturo fanno i conti con un ulteriore passo, inesplorato, sconosciuto, difficile per una coppia come loro: il rapporto con due bambini di 8 e 10 anni, il rapporto di responsabilità genitore/figlio, il rapporto non esisto più solo io/solo noi come coppia.

La dea fortuna (fa riferimento al Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina) nella prima ora e mezza dà il meglio di sé. Il regista, che scrive con Gianni Romoli e Silvia Ranfgni, non si risparmia, elargisce lacrime e sorrisi, cura con grande umanità e amabilità gli sbalzi o le montagne russe della vita. Mentre il rapporto tra i due protagonisti sta facendo spazio a rancori e risentimenti, quando i compromessi fatti per l’altro diventano rinunce e recriminazioni, Özpetek ritaglia un po’ di tempo per accennare ad un altro tipo di evoluzione dell’amore, come quello tra Ginevra (Pia Lanciotti) e Filippo (Filippo Nigro). Lei dolcissima donna che ha avuto parecchie storie, che l’hanno portata a lui, il suo amore, affetto, non lo si dice, forse da alzheimer forse da demenza senile, ma che ogni giorno si innamora di nuovo della sua compagna di viaggio.
La narrazione, gli attori, le musiche (Mina soprattutto) funzionano, molto bene, tra battute feroci, sarcasmo, vita quotidiana non priva di ferocia. Poi si arriva all’ultima mezz’ora, e il film si incrina. Entra in scena l’odiata madre di Annamaria, la nonna dei bambini. Alessandro e Arturo non si ritengono in grado di fare da genitori, mentre la donna è in convalescenza; la loro crisi occupa le loro giornate a tempo pieno. Portano i bambini dalla nonna (Barbara Alberti), in Sicilia. Come se Özpetek non sapesse concludere una storia, si perde in un altro film, un’altra storia che è veramente di troppo. La donna anziana è un coacervo di cattiveria e meschinità, che accetta i bambini con un sorriso che non riesce nemmeno a stendersi.

Mezz’ora forzata, grottesca, incongruente, nel tono e nel dramma, nello sviluppo dei sentimenti di Alessandro e Arturo.
Peccato perché il film trasportava lo spettatore con sincerità nell’intensità della vita, nella bellezza misteriosa della generosità dell’amore, nella fragilità dell’umanità che affronta il dolore. Non c’era bisogno di aggiungere altro.

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