Un film di 13 ore e 28 minuti è difficile guardarlo, figuriamoci recensirlo. Che sia difficile da guardare lo sanno gli organizzatori del 71° Festival di Locarno, che le hanno provate tutte per proiettare il lungometraggio La Flor in spezzoni di varia lunghezza, in modo da non uccidere nessuno spettatore ma senza nemmeno deludere il suo coraggiosissimo regista Mariano Llinás (“non deve diventare una serie tv perché quelle non le sopporto proprio”, ci ha detto quando l’abbiamo incrociato dopo una conferenza stampa). Che sia difficile da recensire lo sa chi sta scrivendo in questo momento, attento a non tralasciare nessun particolare importante nel tentativo di non trasformare questa recensione in un’opera in sei volumi. Se c’è una cosa sicura su La Flor però è la seguente: le ore su ore di durata non sono né una trovata pubblicitaria né un esperimento fine a sé stesso ma l’unico modo per mettere in scena un’idea che non poteva essere trasformata in film in altra maniera.
Attraverso sei capitoli non concatenati tra loro (o non proprio, come vedremo dopo), ognuno realizzato con stilemi di generi diversi e con toni che cambiano da capitolo a capitolo, Llinás riesce a fare contemporaneamente un riassunto, una parodia (nel senso più nobile del termine) e un omaggio all’atto del fare cinema nella più ampia delle sue accezioni. Il titolo (“il fiore”) è riferito alla struttura narrativa della pellicola, riassunta dallo stesso regista all’inizio del film e spiegata come quattro episodi disgiunti, disposti come una sorta di corolla di petali (rispettivamente il primo, il secondo, il terzo e il quinto), un episodio di raccordo che fa da pistillo (il quarto) e il sesto episodio  che funge da conclusione ideale a tutto il progetto (il gambo del fiore). In ognuno, in ruoli diversi da episodio a episodio (escluso il quinto in cui non compaiono nemmeno) ritroviamo le stesse quattro attrici, vale a dire Elisa CarricajoPilar GamboaValeria Correa e Laura Paredes, ognuna rappresentate di un diverso tipo dell’enneagramma.

Il “fiore” narrativo disegnato e spiegato dal regista

Il lavoro fatto sui quattro “petali” del fiore, ovvero gli omaggi a generi cinematografici diversi, non si limita a una semplice imitazione per stereotipi (non è esattamente una parodia alla Maccio Capatonda, ecco) ma è una complessa rielaborazione del genere preso in esame di volta in volta. Nel primo capitolo, presentato da Llinás come un film di serie b “come quelli che facevano gli americani una volta” (anche se un occhio attento può vederci benissimo anche un po’ di horror italiano à la Mario Bava) ci troviamo davanti ad una storia di demoni e fantasmi con protagoniste delle coraggiose archeologhe. L’episodio, tra cliché da vero b movie e piccoli colpi di genio, serve al regista per rompere il ghiaccio, per dimostrare la naturalezza con cui si destreggia in un genere che abbandonerà dopo appena un’ora e mezza (che in La Flor è come dire dopo cinque minuti).
L’episodio che segue è più complesso perchè va ad affrontare due generi fusi tra loro in una combinazione inedita e sapientemente orchestrata, vale a dire un musical melodrammatico (arricchito dalle impeccabili performance vocali di Pilar Gamboa) e una trama in bilico tra il crime e il mystery che serve al regista per introdurre il più complesso tra i quattro petali, ovvero il terzo, una vera e propria spy story di cinque ore e quaranta minuti che sembra durare almeno metà per l’abilità con cui Llinás gioca con una trama al limite del complicato, concatenando salti temporali impossibili da seguire (verso la fine dell’episdo si arriva a una media di un salto temporale ogni due minuti, tra le risate degli spettatori o almeno di quelli superstiti) e aggiungendo personaggi e risvolti a un ritmo crescente e costante. L’ultimo petalo (ovvero il quinto episodio, del quarto parleremo dopo) è forse il più lineare, trattandosi di un omaggio al cinema muto (con la coraggiosa scelta di non utilizzare alcun tipo di colonna sonora) in cui le nostro quattro amiche (e dopo dieci ore assieme non c’è altro modo per definirle) non compaiono nemmeno.
Se La Flor si fosse limitato a questi quattro episodi si tratterebbe di un gran bel progetto girato da un bravo regista con quattro brave attrici, ma niente più. A cambiare le carte in tavola però è il quarto episodio, il “pistillo” per intendersi. Dire che Llimás decide di rompere la quarta parete sarebbe riduttivo, in quanto non solo si limita a mettere in scena un finto backstage del film, con un attore che interpreta il regista stesso impegnato a litigare con le quattro ragazze e con la troupe, ma cambia la prospettiva della narrazione scegliendo come narratore il personaggio dell’investigatore dell’occulto Gatto, che dopo aver fatto rinchiudere la troupe in manicomio studia le anomalie causate dalla realizzazione del film (che in questo livello di realtà si chiama La Araña, il ragno) basandosi sulla agendina rossa del regista e sui suoi appunti, ignaro del fatto che si tratti di una pellicola ma analizzandolo come una sorta di strano rito.
Gatto, che passa notti insonni studiando libri di Arthur Machen nel disperato tentativo di comprendere il significato di quell’agendina (scusa per Llimás per realizzare una delle digressioni più belle del film, una rivisitazione crime delle avventure di Casanova con le quattro protagoniste) è una splendida metafora dello spettatore, spettatore di questo film in particolare e del cinema in generale, e l’episodio tutto diventa una riflessione dell’impatto del cinema o comunque della cultura sulla vita reale, il tutto all’interno di un film che cancella e ridisegna più e più volte la linea che separa questi due luoghi figurati. La quarta parte termina con delle splendide riprese delle ragazze, completamente sconnesse da qualsiasi episodio, in cui le quattro protagoniste si spogliano, ridono, ballano, in un angolo del film interamente dedicato a loro, come se il regista volesse consegnare loro lo scettro e il potere di decidere cosa finisce nel film per un attimo, come a sovvertire la naturale gerarchia del set.
E sovvertire l’ordine delle cose è quello che fa anche col finale, mettendo quello che di fatto è il vero finale del film più o meno a tre quarti (appunto nel quarto episodio) e terminando La Flor con una poetica e sognante sequenza, il sesto episodio, in cui le ragazze (nei panni di personaggi di una storia che non conosciamo) si salutano e si separano dopo una lunga traversata nel deserto, il tutto velato da un filtro che distorge pesantemente l’immagine. In questa porzione del film poi i personaggi di Laura Paredes e Valeria Correa sono incinte (e incinte erano le due attrici al momento delle riprese), quasi a marcare la proiezione verso il futuro di questi ultimi istanti del film, con le ragazze gravide che si incamminano, in una sorta di personificazione del concetto di finale aperto. Notare poi come le altre storie non avessero un finale vero e proprio, mentre l’ultima è di fatto un finale senza premessa.
In un sistema complesso che è molto più di un omaggio al cinema ma una riflessione sul sul rapporto tra questo e chi lo fa o chi lo guarda, La Flor riesce a farci perdonare Llinás per le scelte scellerate in materia di tempistiche. Chiaramente si tratta di un esperimento, di una scommessa, di un salto nel vuoto (tant’è che Llinás e i produttori non hanno ancora ben chiaro come distribuire la pellicola, come ha confessato il regista in conferenza stampa), ma un applauso per questo film dovrebbe partire solo per l’idea che c’è dietro, a maggior ragione quando il risultato finale è un’esperienza così godibile e travolgente.