Dopo il rodaggio nel circuito festivaliero con annessa incetta di premi – tra cui quello per Miglior Film Straniero al Woodstock International Film Festival due anni fa –, arriva per qualche giorno in sala grazie a Lo Scrittoio La fuga (2017), esordio sul grande schermo di Sandra Vannucchi che fa della concisione e dell’economia espressiva i suoi punti di forza. Manca però di visione d’insieme, e di un taglio sociologico adeguato al milieu che si propone di analizzare.
È da tanto che Silvia – la quasi esordiente Lisa Ruth Andreozzi – chiede di essere portata a Roma, ma la malattia della mamma – Donatella Finocchiaro – non accenna a migliorare e anche il papà – Filippo Nigro – non vuole sentire ragioni. Alla faccia dei suoi dieci anni decide così di andarci da sola, accompagnandosi a una ragazzina rom di nome Emina – Emina Amatovic – incontrata in treno: tra le due sboccia presto l’amicizia, ma altrettanto presto si diffonde la notizia della scomparsa di Silvia…
Per il suo primo lungometraggio Vannucchi è partita da premesse autobiografiche, anche se nel suo caso il viaggio fu subito interrotto dai parenti romani che la intercettarono alla stazione d’arrivo. Una fuga verso la città dei sogni, ma anche una fuga dal clima familiare appesantito dalla depressione della madre. Depressione che nel film non è mai nominata, se non proprio nei minuti conclusivi: fino alla fine il male resta ineffabile, gli si riserva quel silenzio tipico del genitore che nell’intento di proteggere “le creature” finisce per ottenere l’effetto contrario, inducendole alla ribellione. Nelle fattezze e negli atteggiamenti – e meno nelle parole, viste l’artificiosità e pretestuosità di certi dialoghi – le protagoniste de La fuga sono bambine, e qui sta il primo merito del film: dinanzi alla necessità di implementare il ricordo con l’invenzione per dar vita a una storia degna di questo nome, la regista/sceneggiatrice – per la scrittura è accreditato anche il produttore Michael King, suo collega dai tempi de I Soprano – non trasforma Silvia ed Emina in eroine, ricordandoci che la loro età è sinonimo di ingenuità, vulnerabilità, ma anche di assenza di pregiudizi.
È invece nella rappresentazione della Città Eterna e nello spaccato della comunità rom che Vannucchi cede alle convenzioni, risultando parziale, per non dire manichea, nella sua lettura. Agli antipodi rispetto alla Roma pariolina di Caterina va in città di Virzì, La fuga cerca di restituire un’immagine quanto più cruda della capitale ambientando la vicenda tra periferie e campi nomadi, ma a suscitare un moto di empatia per gli zingari che chiedono la carità, o viceversa di riprovazione per i fascistelli che li tormentano, ci vuol poco. La sensazione è che l’autrice non sia riuscita a coniugare coerentemente la fascinazione per il microcosmo di Emina con il racconto di formazione, fallendo là dove il coevo A Ciambra di Carpignano – presentato nella Quinzaine a Cannes70 – gettava nuova luce sulle contraddizioni del sistema-paese con un ritratto disarmante dell’enclave rom di Goia Tauro.
Nonostante il biglietto da visita di film indie a budget ridotto, oltre ai grandi nomi di Filippo Nigro e Donatella Finocchiaro – la cui performance purtroppo è sotto la media, tanto che a conti fatti la migliore del comparto attoriale è la “novellina” Amatovic – La fuga ha dalla sua maestranze di prim’ordine, dal direttore della fotografia Vladan Radovic (Anime Nere, Figlia Mia, Troppa Grazia) al montaggio – decisamente perfettibile, soprattutto nelle scene a Piazza Navona – affidato a Osvaldo Bargero e Luigi Mearelli.
Facendo affidamento su una combinazione di facce nuove e talenti affermati, Vannucchi ha partorito un esordio interessante che ben si inserisce nel panorama del cinema italiano contemporaneo, impegnato a ridefinire i canoni della rappresentazione cinematografica dell’adolescenza. È però un esperimento riuscito solo in parte, che manca di programmaticità e preferisce usare il (poco) tempo a disposizione per disseminare numerosi spunti piuttosto che compiere lo sforzo di coltivarne una selezione.