“La pianta del mondo” di Stefano Mancuso parte da un semplice presupposto: all’inizio di ogni storia c’è una pianta. E così anche all’inizio di ogni capitolo, l’autore dedica alcune righe ad un albero o vegetale specifico, che in qualche modo rappresenta il tema che andremo ad esplorare. Queste righe sono accompagnate da bellissime illustrazioni, sempre ad opera di Mancuso, che completano ed arricchiscono il libro. Alcuni capitoli sono più scientifici, altri più nozionistici, ma è innegabile che il volume costituisca una lettura preziosa per conoscere i principali inquilini del pianeta: spesso non ci pensiamo, ma le piante costituiscono l’85% della biomassa sulla Terra, mentre gli animali (in ogni specie e forma) raggiungono un mero 0,3%.
La pianta della città
Il capitolo forse più coinvolgente è quello dedicato alla città e alla sua trasformazione: quella avvenuta nel corso dei secoli e la necessaria trasformazione che dovrà avvenire, incorporando la vegetazione nella struttura stessa delle nostre metropoli. Nei progetti delle città ideali le piante non compaiono mai; questo è un retaggio del nostro passato, portatore di una memoria ancestrale circa la necessità di difendersi. La città, con le sue mura e cancelli, stabilisce un dentro sicuro opposto ad un fuori selvaggio e minaccioso. La riflessione che sorge immediata è la seguente: gli abitanti delle città non sono in grado di produrre, entro i confini della città stessa, le risorse di cui necessitano per vivere.
Oggi l’uomo occupa una parte irrisoria della superficie terrestre, e questo è cambiato ad una velocità sorprendente nel corso del secolo scorso. Nel 1950 il 70% dell’umanità viveva in zone rurali, con una svolta epocale nel 2007: in quest’anno, per la prima volta, la maggioranza delle persone viveva nelle città. Si prevede che nel 2030 il 60% della popolazione terrestre vivrà nelle città, arrivando ad un 70% nel 2050. In appena un secolo, quindi, i numeri si saranno completamente invertiti. Ciò è ancora più sorprendente se pensiamo che le città occupano appena il 2,7% delle terre emerse abitabili.
Sembrerebbe, quindi, che l’uomo si stia tramutando da organismo generalista (cioè in grado di colonizzare ambienti molto diversi) ad organismo specialista: le città costituiscono, infatti, una sorta di nicchia ecologica, con caratteristiche precise e ben identificabili. Questo habitat produce il 70% dei rifiuti e il 75% delle emissione di CO2, mentre utilizza il 75% delle risorse naturali del pianeta. Un’impronta ecologica non sostenibile, quindi: le città possono svilupparsi solo perché ci sono, in altri luoghi, risorse naturali che vengono sfruttate per alimentare il loro sviluppo.
Mancuso si chiede se sia davvero necessario sfruttare il 50% della superficie terrestre per produrre le risorse di cui abbiamo bisogno. E si risponde di no: delle terre destinate a produrre alimenti, il 77% serve all’allevamento, che però produce solamente il 18% delle calorie e il 37% delle proteine consumate dall’umanità. I numeri parlano chiaro. La fisiologia della città deve quindi cambiare completamente; qui Mancuso cita diversi autori, da Patrick Geddes a Luke Howard, che vedono la soluzione nel processo di co-evoluzione di uomini, piante, animali, edifici. Qualunque tentativo di progettazione urbanistica non può che essere interattivo, rispettoso del metabolismo della città. Le nostre città sono un organismo complesso, e per mantenerlo efficiente e funzionante, la presenza di piante all’interno del centro urbano è fondamentale.
Il World Economic Forum e il MIT hanno sviluppato il sito Treepedia, nel quale per molte città del mondo è misurata la percentuale di superficie urbana coperta da vegetazione. È interessante vedere come, per quasi tutte, tale percentuale sia nettamente inferiore al 10%. È evidente, quindi, che la strada è ancora lunga, ma questo stesso capitolo ci ha dimostrato che l’uomo è capace di grandi cambiamenti in tempi relativamente brevi.
La pianta del crimine
Segue un capitolo dedicato alla nascita della botanica forense. Le piante, come abbiamo detto, sono i più numerosi abitanti del pianeta; è impossibile, quindi, non portarsi addosso qualche frammento di origine vegetale, che possa inchiodarci a una determinata scena del crimine. La palinologia, ad esempio, è la scienza che si occupa dello studio dei pollini e di altri elementi microscopici, ed è indubbiamente una disciplina che avrebbe molto da offrire nella risoluzione di casi giudiziari.
Ma andiamo con ordine. La botanica forense viene riconosciuta come scienza grazie al celebre caso Lindbergh, che venne nominato “il crimine del secolo”. Siamo nel 1927: Charles Lindbergh è un giovane pilota, ambizioso, che riesce in una missione titanica: trasvolare l’Atlantico da New York a Parigi senza soste. Il principale problema posto dalla traversata era la necessità di trasportare il carburante necessario all’impresa. Per questo Lindbergh costruisce autonomamente lo Spirit of St. Louis, un monoplano monomotore del tutto particolare; è, infatti, un enorme serbatoio di carburante con una visibilità, per il pilota, quasi nulla. Ricordiamo che già diversi equipaggi erano morti tentando la trasvolata. Ma Lindbergh riesce nell’impresa. Questo lo rende un eroe, uno dei personaggi più celebri del suo tempo.
Nel 1932, il suo figlioletto di quasi due anni viene rapito dalla culla. L’evento suscita un grande scalpore nella cronaca del tempo, proprio a causa della fama della famiglia Lindbergh. Il rapitore lascia dietro di sé una lettera con la richiesta di riscatto e una scala, utilizzata per accedere alla cameretta del bambino, attraverso la finestra. Nonostante il pagamento del riscatto, il corpo del bambino viene ritrovato per caso, poche settimane dopo.
L’indagine si sviluppa ovviamente su numerosi aspetti; ma, per la prima volta, è un indizio di origine botanica ad inchiodare il colpevole. La polizia, infatti, si concentra su un sospettato, tale Hauptmann, ma non ha prove sufficienti per provare la sua colpevolezza. E qui entra in scena la scala che abbiamo menzionato. È evidente, infatti, che uno dei pioli è stato costruito manualmente da un non professionista. E in casa di Hauptmann manca un’asse del pavimento. Lo xilema del piolo corrisponde perfettamente con quello del pavimento di Hauptmann. Lo xilema costituisce una vera e propria “impronta digitale” della pianta, non riproducibile, assolutamente unica per ogni esemplare.
La difesa cerca di screditare la prova, asserendo con un certo disprezzo che la botanica non è una scienza. Ma ormai le piante sono entrate con successo anche nelle aule di tribunale.
La pianta della luna
Un capitolo forse più nozionistico, ma ugualmente interessante, riguarda quelli che vengono chiamati “Moon Trees”. Durante la missione Apollo 14, l’astronauta Stuart Roosa, porta con sé una scatola metallica contenente 500 semi. Questi appartengono a numerose specie comuni negli Stati Uniti, e lo scopo era quello di riportarle sulla Terra, per vedere se sarebbero cresciute in modo differente rispetto ai “fratelli” che non erano stati nello spazio.
Al loro ritorno, i semi vennero effettivamente piantati, ma per molti anni si perse traccia dell’esperimento. L’intera vicenda tornò in auge nel 1996, quando l’archivista della NASA Dave Williams, si fece carico di ricostruire la storia di questi semi che, in fin dei conti, avevano orbitato per 34 volte intorno alla luna. Riuscì a stilare una lista di circa settanta esemplari, con la loro specie e localizzazione. Questi dati sono da allora disponibili a tutti sul sito ufficiale della NASA.
Stefano Mancuso, La pianta del mondo, Laterza, 2020, pp. 191, euro 18.
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788858140680