“La vita in comune” di Edoardo Winspeare

Secondo titolo italiano della sezione Orizzonti, La vita in comune è il sesto lungometraggio del salentino Edoardo Winspeare, che per questa commedia di poesia e redenzione ha scelto come location il proprio paese natale nelle Puglie, Depressa.

Per una rapina andata male PatiClaudio Giangreco – ha dovuto scontare due anni di galera, mentre il fratello – e complice – AngiolinoAntonio Carluccio – è rimasto a piede libero e continua a credere di essere un gangster. In carcere, grazie alle lezioni del sindaco PisanelliGustavo Caputo – , Pati ha però trovato conforto nelle belle lettere: ora è un uomo nuovo, stanco di assecondare i sogni da criminale di Angiolino. Con l’aiuto del primo cittadino, Pati si impegnerà anima e corpo per riportare sulla retta via il fratello e il figlio Biagetto, cercando poi di dare un volto nuovo alla città.

Recitato quasi esclusivamente in salentino, La vita in comune ostenta da subito un tono paradossale che non disdegna il lirismo, assumendo i connotati della favola piuttosto che della commedia umana: in quel di Depressa si intrecciano le vite di carcerati attanagliati dai sensi di colpa per l’uccisione di un cane che riscoprono nel loro idillio dietro le sbarre la gioia di stare insieme, prostitute dal cuore d’oro, assessori comunali che tentano la scalata al potere, un ex-militare lobotomizzato dagli orrori della guerra, un amore giovanile da età del dubbio – anche se per le due parti in causa l’età in questione dovrebbe essere passata da un po’ – , un miracolo provvidenziale a evitare il peggio.

Un ritratto del Sud, quello offerto da Winspeare, che non diverte e anzi inizia a stancare dopo le innumerevoli commedie che da qualche anno a questa parte, con alterne fortune, hanno attinto sempre più cospicuamente al repertorio del folclore meridionale. Vengono a crearsi fin troppe sottotrame che non si armonizzano, tanto che non si capisce dove il regista voglia andare a parare: si parte con Pati e il suo anelito poetico, per poi passare a Angiolino e quindi al caso del sindaco spodestato, saltando di palo in frasca semplicemente mettendo in fila un paio di trovate – certo talvolta azzeccate. Winspeare si concede anche qualche virtuosismo, come il dettaglio della chiocciola strisciante durante la pioggia o il ralenti di Angiolino e Pati in visita al cimitero, che però non fanno che aumentare l’impressione di disarmonia rispetto a quello che è il vero nerbo della pellicola, ovvero gag autonome che a parte qualche parolaccia in dialetto stretto hanno ben poco di comico.

Le cadute di stile sono più d’una e culminano nel “film nel film” realizzato su proposta di Angiolino per rincuorare il povero Pisanelli – di cui Gustavo Caputo offre una modesta interpretazione, volutamente antitetica rispetto a quella degli altri comprimari. La vita in comune è più un coacervo di spunti – ripetuti all’inverosimile – che un lungometraggio fatto e finito, protraentesi per quasi due ore senza che vi sia mai un effettivo punto di svolta.

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