C’è stato un tempo, una decina d’anni fa, in cui un regista come Terrence Malick poteva essere inquadrato senza troppi problemi, nonostante la parca produzione cinematografica e una reticenza verso l’aspetto mondano della sua professione. A hidden life è ormai il sesto di sette film in un lasso di tempo lungo appena dieci anni – il settimo, The last planet, è previsto per l’anno prossimo – e l’ennesima opera ad apparire slegata dalle precedenti nel confuso ed errabondo secondo periodo del cinema del regista texano. Solo in questo lustro l’abbiamo visto riallacciarsi alla terra con un film concettualmente più elementare ma non per questo disprezzabile come Knight of cups, effettuare una sortita per approdare alla videoarte con Voyage of time, e ritornare al cinema con l’inutile Song to song.

A hidden life rappresenta un’ulteriore variazione in qualità di biopic più o meno standard con la classica struttura tripartita e una modalità narrativa convenzionale: in soldoni, è una storia. La storia è quella di Franz Jägerstätter (August Diehl), l’unico contadino di Radegund a rifiutare prima l’Anschluss e poi la chiamata alle armi del Reich in virtù della sua profondissima fede cattolica, accettando di pagare con la vita e con il martirio l’attaccamento alle sue idee. Non è una storia edificante, né un omaggio, né un’ode, ma qualcosa, nel bene e nel male, di molto più complesso che prova a operare un lavoro di sintesi di tutto il percorso di Malick, nonché il suo lavoro più personale e ambizioso – sì, più ambizioso anche di The tree of life, con cui condivide la spaccatura interna che non può non stroncarne le velleità più alte. Come The tree of life infatti non è un film che può essere giudicato negativamente, ma appare intrinsecamente incompleto a causa di una falla interna, come se a un certo punto una forza ne interrompesse il volo per precipitarlo violentemente a terra.

Malick dipinge un’imitatio Christi scevra dagli aspetti teologici, che pure sono stati indagati negli anni passati assieme alla figura di Jägerstätter, ma la volontà del regista è quella di elevare Franz a soggetto universale, quindi ne taglia via gli aspetti più filosoficamente intimi a costo di semplificare il suo protagonista pur di farne un’icona di grazia divina fuori dal tempo (e fuori dal personaggio realmente esistito) da mettere in contrapposizione con il male per eccellenza, il nazismo. Franz nella mente e nell’opera di Malick si fa portatore di una verità razionale che è dentro di lui e gli ha fatto intravedere esattamente cosa è bene in questa situazione. Non si tratta di una banale presa di posizione non-violenta ma del perseguimento consapevole di una scelta frutto della presa di coscienza che non c’è una singola idea o razionalizzazione che potrebbe fargli cambiare opinione. Più volte nelle tre ore della durata Franz viene interrogato – in ultimo da Bruno Ganz, deceduto nella post-produzione – e gli viene chiesto “perché?”, e lui risponde che sa benissimo che potrebbe essere tutto più semplice, che ribellarsi al Reich è persino più faticoso che rinunciare alla fede e ai comandamenti, ma lo riconosce visivamente come male, come se il suo sguardo potesse intravedere l’ordine del mondo, al punto da non dimostrare mai paura della morte, dimentico della propria esistenza singolare e di quelle intorno a lui come la moglie, abbandonata.

Franz apprezza come i suoi principi rinvigoriscano la sua capacità di agire, il senso della possibilità nei confronti del mondo, mentre i suoi nemici vengono costantemente limitati, sono una frammentazione continua, e ironicamente Malick li riprende con la mdp fissa, catturandone esitazioni e inciampi, al contrario delle scene di vita bucolica all’inizio del film, in cui la quotidianità del protagonista e della moglie Franziska (Valerie Pachner) arrivano allo spettatore con tutto il classico bagaglio registico malickiano e le sue rarefazioni permesse dall’uso intensivo della steadycam. Le mani che affondano nella terra e la preparano alla semina sono in radicale opposizione con la retorica nazista, che propugna la difesa della patria ma l’abbandona, costruisce città e industrializza le coltivazioni mentre la vita di Franz è un aprire e un aprirsi alle infinite possibilità, una predisposizione sincera ad accogliere tutto quello che verrà, martirio incluso. La modernità rappresentata dal nazismo caccia Franz dalla sua casa ma Malick non è così coraggioso da proporre una sovrapposizione totale fra la prima e il secondo e preferisce invece giustapporre l’incontro con la moglie alla scoperta del divertimento che può dare l’ultimo modello di motocicletta. E anche se Malick subisce la fascinazione dello scenario rurale, non spinge fino a delineare una dicotomia preferendo rappresentare il male del suo film come una privazione, una mancanza di razionalità. Franz la vede, ma gli altri no.

L’intero film si regge su una costante dialettica visiva tra alto e basso, tra dinamico e statico, tra grande e piccolo. Le prospettive e gli angoli scelti rimpiccioliscono i personaggi quando sono a contatto con la natura, li circoscrivono in linee disegnate da alberi e animali o li schiacciano dall’alto, a più riprese, “come un martello”, dirà a un certo punto il voice-over, l’opposizione al quale è l’incudine (Franz), che resiste strenua. In generale il tratto unico di A hidden life è quello di svolgersi su piani spaziali più articolati rispetto a qualsiasi altro lavoro di Malick, tanto che si è reso necessario panchinare Lubezki alla fotografia e sostituirlo con Jörg Widmer, perché la luce naturale non era abbastanza per i movimenti di macchina nel film. Movimenti che si ripetono più o meno ciclicamente, finendo per associare idea a immagini e transizioni: la morte fa capolino non solo nella prigione e nella scena del treno, ma anche nella scena della motocicletta di cui sopra o quando Franz si incammina dalla casupola al villaggio, facendosi presagire e successivamente mettere in correlazione mediante una ripresa verticale che accompagna il tragitto dritto e lineare in carrellata; e tra tutte le assonanze interne questa è la prima che va citata perché funge anche da contrappunto a una regia che definire “mobile” sarebbe un eufemismo e che vorrebbe di contro fare da parallelo all’intensa vitalità precedente all’arrivo del nazismo.

La colonna vertebrale di A hidden life è proprio costituita da questo intrecciarsi di dinamiche sottili che vanno ripetendosi all’interno del film, e per garantirne le fondamenta Malick ha dovuto fare più di un passo indietro ritornando a una narrazione classica, a una regia più invadente, e a una voce narrante onnipresente. Un colpo al cerchio e uno alla botte, spingere da un lato implica tirare dall’altro, l’assoluto limite e di A hidden life, e di Terrence Malick. Più elementi dirimenti che formano il nerbo dei suoi film non riescono a coesistere contemporaneamente. Già solo la scelte delle lingue aiuta molto a capirlo: il tedesco non viene sottotitolato nella versione originale del film, deve suonare estraneo, deve essere la lingua del nemico invasore, ma i personaggi non parlano – che so – un dialetto, ma inglese, per farsi comprendere, per far sì che il prodotto finale sia accessibile a tutti. Ancora una volta Malick non va oltre, non fa scelte che potrebbero stroncare in modo definitivo il legame con un cinema che non sente suo, e da cui ostenta dissociazione non appena gliene se ne presenta l’occasione, e nella vita e nella finzione. Nel film l’orrore nazista viene raccontato dal spezzoni della propaganda hitleriana della Riefenstahl, nella realtà il nostro aborre i meccanismi dello star system ma non è ancora capace di recidere i fili che a esso lo legano, non è come von Trier, la sua è più una volontà che una reale necessità, è più un vezzo che testimonia come vorrebbe fare cinema e non come effettivamente lo fa. E vale la pena tirarne in ballo il vissuto per due motivi: in primis, è da To the wonder che nelle sue opere riecheggiano motivi autobiografici, e il secondo è che la “vita nascosta” si riferisce a quella di un silenzioso oppositore, di un “diverso”, identificando il regista con il protagonista.

A hidden life è quel tipo di film di cui si può discutere per ore, anche al di là del linguaggio critico per l’infinità di elementi di discussione che genera, ma è anche il prodotto di un’idea approssimativa nutrita ancora con il cordone ombelicale. Il cinema di Malick è fatto di compromessi, sia con se stesso sia con il pubblico, e per quanto sia potente per come affronta la questione visiva e sappia farla convivere con un discorso estremamente articolato, sviluppandosi dà origine a fratture interne che ne abbassano il livello come sfiatatoi che allentano la pressione. Malick non è ancora arrivato a un’idea filmica che preveda un altro tipo di cinema oltre a quello che conosce così bene ma che non ama, non sa fare quello che ha fatto fare al suo alter ego di A hidden life: difendere un qualcosa abbandonandolo. Finito tutto possiamo pure apprezzare il lavoro sullo spazio filmico ma, per quanto possa valere la logica dei paragoni, come non rendersi conto che le quasi tre ore di A hidden life sono racchiuse quasi del tutto nei cinque secondi del solo campo/controcampo di Hadewijch di Dumont in cui Céline osserva e viene osservata di rimando da una scultura di Cristo? Come possiamo non leggere nel voice-over opprimente una manifesta difficoltà nel fare affidamento sulle immagini e nel dotarle di senso senza ricorrere a una descrizione pedissequa che spieghi allo spettatore esattamente il significato di quello che sta vedendo rovinandolo così nel momento stesso in cui lo palesa? Malick non ha ancora trovato il modo di guardare al suo stesso cinema senza tirarsene fuori a ogni costo, non vuole ammettere di farne parte, scindendo senza possibilità di appello creatore e opera, sguardo e immagine, forse in contrapposizione con il se stesso dei primordi che studiava maniacalmente tanto gli effetti della luce sugli oggetti quanto le conseguenze degli oggetti stessi sulla luce che li illumina collegando rappresentazione e oggetto rappresentato.

A hidden life è il film più autentico di Terrence Malick e ne espone anche il limite, ci fornisce ancora una volta, nel bene e nel male, un ritratto esauriente del suo autore pur avendo l’ambizione di essere qualcosa di più senza riuscirci del tutto. Si tratta di un film la cui visione rimane comunque affascinante e in ogni caso così sincero da esigere partecipazione appassionata da parte di chi sta dall’altra parte dello schermo, ma scopre un secondo lato frustrato e frustrante manifestando l’incapacità di fare quel passo in più che significherebbe cinema autentico. E qui si ferma Terrence Malick, questo è il suo punto di arrivo poiché il suo cinema non sembra poter avanzare ulteriormente. Il cinema però è andato oltre. Malick per quanto dimostri di ardere dalla voglia di cambiare, rimane ancorato ad altro, la sua coperta non è così lunga, perlomeno non abbastanza per l’ambizione che possiede.