Sono passati dieci anni da Majdan (2014), e l’Ucraina che Sergej Loznica restituisce al pubblico in questo suo nuovo e lancinante documentario (una produzione internazionale realizzata con la collaborazione dei canali televisivi Arte e Current Time e arrivata a Karlovy Vary dopo il debutto tra le Séances Spéciales di Cannes 2024) è, va da sé, radicalmente mutata. Il cambiamento salta all’occhio (e ferisce lo sguardo) già in quella Piazza dell’Indipendenza kyiviana che in Majdan ospitava le tende, i concerti, i canti, i comizi, le iniziative rumorose e a tratti giocose dei manifestanti contro il governo corrotto del filorusso Viktor Janukovič, prima che la protesta, in seguito all’intervento delle forze speciali dello stesso Janukovič, prendesse una piega violenta e innescasse il sanguinoso effetto domino le cui conseguenze catastrofiche, culminate nell’invasione russa su larga scala del febbraio 2022, hanno profondamente trasformato il Majdan di oggi. In una delle prime scene di L’Invasion, infatti, vediamo quella stessa piazza, ma grigia, semideserta, immersa in un silenzio interrotto solo dalla commemorazione sommessa di giovani soldati appena caduti al fronte. La guerra totale, dal 24 febbraio 2022, ha esteso all’intero paese, e non più alle sue sole regioni sud-orientali, parte della quotidianità tragicamente surreale dipinta in Donbass, lavoro di fiction firmato da Loznica nel 2018. Il grottesco spinto che connotava Donbass cede qui il passo all’asciutta testimonianza dell’esistenza nelle retrovie di un paese dove da oltre due anni vige la legge marziale: in questa nuova realtà, dai tratti però quantomeno stralunati, il matrimonio tra un soldato e la sua fidanzata, con le frasi zuccherose e vagamente kitsch della funzionaria del comune che lo celebra – frasi di rito sulla lunga e prolifica vita da trascorrere insieme, che suonano piuttosto fuori luogo visto che poco prima noi spettatori abbiamo assistito ai funerali di alcuni coetanei dello sposo –, presenta delle sinistre affinità con il circo degli orrori alle nozze del separatista in Donbass.

Loznica, nel corso di due anni, si è avvalso della collaborazione di svariate piccole troupe, di cui ha poi selezionato, a formare una serie di scene “monografiche” più o meno lunghe, delle porzioni di girato. Ci troviamo in varie parti dell’Ucraina che non vengono mai nominate, ma chi abbia dimestichezza col paese riconoscerà, oltre a Kyiv, anche Odesa, Dnipro con il suo tristemente noto condominio sventrato da un missile, Poltava e altre città e villaggi. Siamo relativamente lontani dal fronte, a differenza di quanto avviene in altri documentari consacrati di recente al conflitto russo-ucraino, come per esempio il premio Oscar 20 Days in Mariupol (2023) di Mstyslav Chernov, ma anche Eastern Front (2023) di Vitalij Manskij o Real (2024) di Oleh Sencov – quest’ultimo in programma proprio ora a Karlovy Vary. Nondimeno, l’immagine inquietante portata da Loznica sullo schermo è quella di un paese da un lato capillarmente militarizzato, dove le uniformi sono onnipresenti, e dall’altro irreversibilmente traumatizzato, mutilato nel corpo, nello spirito, nella conformazione urbana delle sue città, tra funerali di ventunenni partiti volontari, giovani invalidi di guerra che fanno la riabilitazione in centri specializzati, neo-papà in mimetica che dispongono di ben poche licenze per vedere i loro bambini lattanti, case senza più finestre né tetti, spiagge e campi punteggiati di mine, scuole deserte dove vagano cani randagi – e, a fare da contrappeso, altre aule scolastiche dove i bambini scendono regolarmente nei rifugi sotterranei e a lezione di arte commentano disegni a tema bellico, mentre l’allarme antiaereo riecheggia imperterrito anche sullo sfondo della routine apparentemente normale di chi sembra ancora risparmiato dalle ripercussioni più pesanti del conflitto.

Nella sinossi del documentario diffusa a Cannes, L’Invasion è stato descritto come un ritratto della resistenza del popolo ucraino a fronte dell’invasione russa, ma l’impressione che si ricava durante la visione (complice, com’è tradizione per Loznica, l’assenza di qualsivoglia commento o di indizi espliciti che lascino trapelare la posizione autoriale) non è certo quella che scaturisce da documentari ucraini dichiaratamente militanti e patriottici come Freedom on Fire di Evgenij Afineevskij (visto fuori concorso a Venezia 2022). Chi scrive ha conoscenze di prima mano di autentiche storie di resilienza in terra ucraina, dagli affollatissimi spettacoli degli stand-up comedian nei bar seminterrati di Kyiv alla vitalità venata di umorismo nero degli abitanti di Charkiv, che nonostante i bombardamenti quotidiani curano i loro giardini e organizzano feste con gli amici. Ma nelle scene selezionate e montate da Loznica, di resilienza e di vitalità se ne vede ben poca (ad esclusione, forse, dell’episodio incentrato sulla vispa soldatessa che porta i regali di Natale ai bambini di un villaggio, per poi registrare un video in cui ringrazia in inglese un non meglio identificato benefattore che ha inviato degli aiuti alla sua unità): a prevalere sembrano, piuttosto, la stanchezza per un conflitto che si protrae ormai per inerzia (ma con la stessa immancabile violenza), il dolore per le vite spezzate di militari e civili, le incertezze riguardo al futuro (forse anche i bambini delle elementari che vediamo intonare l’inno nazionale ucraino a scuola saranno costretti, come i loro compaesani di poco più grandi, a porgere “il corpo e l’anima / per la nostra libertà”?).

La sensazione è che Loznica (e non è il solo, in questa congiuntura, dentro e fuori dall’Ucraina) si chieda in che direzione, forse irreversibile, si stia muovendo un paese dove ha lavorato a lungo, quali ferite non rimarginabili questa guerra stia aprendo, quale futuro ci possiamo immaginare per una giovane e fragile democrazia in procinto di entrare in Europa ma, complice la spada di Damocle della minaccia russa che ne acuisce le contraddizioni interne, sempre più in difficoltà (il Zelens’kyj rappresentato come un eroe di Star Wars sul lato di una camionetta cela quantomeno una punta di sarcasmo…) nella tutela di quella “libertà” dal sapore cosacco cantata nel suo inno nazionale e celebrata alla festa dell’indipendenza del 24 agosto, che, non a caso, vediamo in coda al film. Per una crudelissima ironia della sorte, la criminale invasione russa su larga scala, lungi dal portare alle cosiddette “demilitarizzazione” e “denazificazione” dell’Ucraina vagheggiate da Vladimir Putin, sta conducendo alla militarizzazione permanente di un paese dove le derive nazionaliste ed estremiste stanno purtroppo acquisendo un vigore a loro ignoto prima del 24 febbraio 2022. In queste derive si inscrive anche la lunga scena in cui pacchi di libri stampati in russo (senza fare differenza tra l’opera omnia di Stalin e i dissidenti sovietici, i sussidiari scolastici e gli scrittori americani tradotti) vengono rozzamente scaraventati su dei camion e mandati al macero. Una simile sequenza, certo, può essere molto disturbante, ma altro non si tratta che di una reazione estrema ad anni e anni di politica culturale dei vertici russi: è un rabbioso contrappasso degli editti zaristi ottocenteschi che proibivano la pubblicazione e la circolazione di libri in ucraino, oltre che della politica di russificazione d’epoca sovietica e dei cliché imperialisti secondo cui l’ucraino altro non sarebbe che un dialetto russo meridionale. La lingua russa e il consumo di prodotti culturali in russo, come si sente spesso dire in Ucraina, sono parte integrante del conflitto, perché autorizzano il Cremlino a giustificare la sua invasione (e le innumerevoli vittime che ha provocato) con la protezione di un popolo “fratello” e russofono. Per questo stesso motivo, molti celebri scrittori e cantanti ucraini russofoni, dopo il 2022, hanno programmaticamente rinunciato all’uso del russo nella loro opera, il che non impedisce, peraltro, di ricorrere spesso al russo o al suržyk (ibrido russo-ucraino molto comune nella lingua colloquiale) nella vita quotidiana, come lo spettatore “slavofono” può sentire anche in L’Invasion. Al netto di tutto ciò, è però un dato di fatto il crescente e cieco odio nei confronti di tutto ciò che provenga dalla Russia: un odio che, presumibilmente, non si spegnerà per generazioni.

Perché la guerra russo-ucraina, cui saranno dedicati ampi capitoli nei futuri manuali di storia, continua ancora oggi, senza che si intravveda all’orizzonte alcuno spiraglio di tregua. Le scene finali di L’Invasion, dove torniamo a un Majdan in cui i kyiviani, a parte fotografare i “trofei” di guerra, osservano sgomenti le file infinite di foto di ragazze e ragazzi sorridenti uccisi combattendo a Bakhmut, onorati lungo un muro ingombro di fiori e nel folto bosco di bandierine giallo-azzurre piantate in ricordo dei caduti, può far pensare a capolavori come Austerlitz e Victory Day, in cui Lozniсa si interrogava sui luoghi europei della memoria novecentesca e sulla rielaborazione di questa stessa memoria. Ma Auschwitz e la seconda guerra mondiale, nonostante le loro conseguenze a lungo termine, l’Europa se li è lasciati alle spalle; nell’Ucraina di oggi, invece, la Storia e la memoria paiono intersecarsi ad libitum in un eterno presente plasmato dalla barbarie di una guerra dai risvolti ancora ignoti, da cui, citando le parole di un attivista ucraino, comunque vada “nessuno di noi tornerà”. E non importa se ci troviamo al fronte, nelle retrovie, o nella tranquilla Europa occidentale.