Le Barbier de Séville ou la Précaution inutile di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, andata in scena alla Comédie-Française nel 1775, diviene in poco tempo modello per più adattamenti operistici, tra cui il primo è quello di Giovanni Paisiello, che la traduce in musica poco tempo dopo, nel 1782, per la corte dell’imperatrice Caterina la Grande. Ma a distanza di una trentina d’anni la pièce diverrà immortale grazie alle note di Gioachino Rossini, con l’opera che debutta al Teatro Argentina di Roma nel 1816 con il titolo Almaviva, o sia L’inutile precauzione.
Da quel momento Il barbiere di Siviglia diventa l’emblema per antonomasia dell’opera buffa, venendo rappresentato innumerevoli volte e restando stabilmente nei cartelloni fino al giorno d’oggi, complice anche quella «Rossini Renaissance» che fortunatamente prende piede nella seconda metà del Novecento grazie a un precursore illuminato come Alberto Zedda.
La commedia di Beaumarchais, trasposta in libretto da Cesare Sterbini, è una delle tante declinazioni comiche del conflitto tra generazioni, che ritroviamo spesso anche nel teatro di Carlo Goldoni, in cui mondo antico e moderno danno il via a una lotta che irrimediabilmente, dopo molte peripezie, si risolve a vantaggio del secondo. Gli altri elementi del cocktail sono, come sempre, il denaro e il desiderio, incarnati rispettivamente dal giovane conte d’Almaviva (che si presenta come Lindoro, giovane spiantato) e da Rosina, la fanciulla di cui lui si è innamorato a prima vista. L’antagonista è il vecchio medico Bartolo, tutore della ragazza, sulla quale ha dichiarate mire matrimoniali, accompagnato dal coetaneo Basilio, maestro di musica che la didascalia iniziale, in cui sono descritti i personaggi, definisce quasi programmaticamente «ipocrita». In mezzo sta Figaro, lo scaltro barbiere che funge da factotum e deus ex machina nel risolvere l’intreccio e permettere alla fine le nozze tra i due giovani.
Rossini aveva ben presenti le fonti del conflitto, tanto che – come è stato abbondantemente sottolineato – si è divertito a ‘cambiare stile’ a seconda del personaggio, mettendo in evidenza anche dal punto di vista musicale il divario generazionale.
Come si diceva, non è difficile assistere a una rappresentazione del Barbiere. Con cadenza quasi annuale, dentro e fuori dalla Penisola, sorge un nuovo allestimento e ritornano in scena spettacoli da tempo in repertorio nei principali teatri nazionali e non solo. Il più delle volte, però, il capolavoro del Pesarese non riesce a ‘smuovere’ il pubblico odierno: si applaude alla maestria compositiva, si loda (quando è il caso) la perizia degli interpreti e al massimo si sorride su una vicenda che sembra sideralmente lontana e inattuale.
Non è questo il caso del nuovo Barbiere di Siviglia coprodotto da più istituzioni italiane: Teatro Sociale di Rovigo, Teatro Alighieri di Ravenna, Teatro Verdi di Pisa, Teatro G.B. Pergolesi di Jesi e Teatro del Giglio di Lucca. Questa volta l’opera rossiniana arriva invece a toccare profondamente lo spettatore, tenendolo per tre ore saldamente agganciato alla sua poltrona.
Il merito principale si ravvisa nella regia di Luigi De Angelis, artista che nasce dal teatro e che però annovera già molti brillanti allestimenti operistici, tra cui si ricordano almeno Lohengrin, Die Zauberflöte, Il ritorno di Ulisse in patria e L’Orfeo (versione underground) di Monteverdi. Lo spettacolo rossiniano (realizzato in collaborazione con Fanny & Alexander, la compagnia di De Angelis e Chiara Lagani, curatrice della drammaturgia e ideatrice degli azzeccatissimi costumi) immerge la storia nella contemporaneità. Ma si tratta di una contemporaneità ‘reale’, non edulcorata o richiamata da astratte simbologie.
La scena, quadripartita, ci immette in quattro interni: al piano terra si trovano il ‘Barber Shop’ di Figaro e il soggiorno di Bartolo, a quello superiore una stanza popolata da ragazzi (che di volta in volta fanno le prove della loro rock band, guardano le serie televisive o danno una festa…) e un’altra nella quale è ‘relegata’ Rosina. Il palcoscenico diviene una strada di una qualunque città, in cui passa una serie di ‘archetipiche’ e ‘normali’ figure di oggi, che infatti la locandina definisce «abitanti della città»: un giovane che fa jogging, un altro che fa ginnastica, un altro ancora con la sua bicicletta, una suora (che a un certo punto resterà scandalizzata da una scena in interno…), anziani, una donna non vedente, un barbone di colore che viene malmenato – anche questo appartiene all’attualità –, giovani che passeggiano conversando e sorridendo… Queste e molte altre immagini, che stabiliscono talvolta una relazione con i vari ambienti ‘domestici’, rendono immediatamente comprensibili e ‘vicine’ le dinamiche che si svolgono all’interno, eliminando ogni distanza intellettuale e ogni sovrastruttura teatrale. Così le vicende

di Almaviva/Lindoro, Rosina, Bartolo e Basilio si possono leggere per quello che sono: vicende che appartengono a ogni tempo e dunque naturalmente anche al nostro.
L’ambientazione scelta dal regista (che nell’elaborare la sua messinscena ripensa a Play Time di Jacques Tati) restituisce quindi una freschezza inedita al contesto, permettendoci di partecipare emotivamente all’azione mettendone in evidenza i chiaroscuri che già sono insiti in Rossini. Il tutto strada facendo diviene sempre più esilarante e irresistibile, tra cellulari e WhatsApp, mascherine e spray igienizzanti che cadenzano la scena richiamando anche in modo diretto uno dei periodi più difficili del nostro recentissimo passato. Il ritmo si fa sempre più incalzante, nutrendosi di sketch e di gag dal sapore quasi circense, che però non impediscono mai a chi guarda di perdere di vista lo svolgimento del racconto.
Gli interpreti, tutti profondi frequentatori del Rossini comico, sono impeccabili, in particolare il Figaro di Alessandro Luongo, il Bartolo di Omar Montanari e la Rosina della giovane Mara Gaudenzi. Ma sono tutti bravissimi, dal Basilio di Arturo Espinosa al conte di Almaviva di Matteo Roma. Una notazione a parte riguarda la Berta di Giovanna Donadini, un’esperta di quel ruolo minore ma importante nel Barbiere, che stavolta si cimenta in un’inedita e strepitosa scena di seduzione, divertentissima ed efficacissima. Ma è il livello interpretativo complessivo, accostato alla perizia vocale, a fare la differenza. L’impressione generale è che prima ancora che gli spettatori sia stata la compagnia a divertirsi, nel montare lo spettacolo.
Sul versante strumentale, infine, Giulio Cilona dirige con sicurezza l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta e il Coro Lirico Veneto.
Insomma, un Barbiere assolutamente da vedere.
